Come si cura la Tunisia dal jihad
Poco dopo il suo successo alle elezioni presidenziali in Tunisia del dicembre 2014, Beji Caid Essebsi aveva scritto un editoriale sul Washington Post in cui affermava che il suo primo obiettivo da presidente era “il rafforzamento della giovane democrazia” del paese. Qualche giorno prima, l’Economist aveva scelto la Tunisia come “paese dell’anno”, uscito vittorioso dalle primavere arabe ed estraneo alla minaccia dello Stato islamico. In quegli stessi giorni il Califfato aveva diffuso il primo video che si rivolgeva direttamente al popolo tunisino: nel filmato, Aboubaker el Hakim, noto come Abu al Muqatil, rivendicava l’uccisione di Mohammed Brahmi e Chokri Belaid, due esponenti del Fronte popolare, il partito laico della sinistra tunisina uccisi nel 2013. Muqatil esortava a deporre i vessilli coloniali “di Napoleone e De Gaulle” e a giurare alleanza (baya) al califfo per abbracciare il monoteismo puro (tawhid). Il Wilayat di Tarablus, la provincia dello Stato islamico di Tripoli, aveva diffuso altri video simili in cui il messaggio rivolto ai tunisini era più o meno lo stesso: unitevi a noi. Lo Stato islamico aveva cominciato a mettere in pratica la sua strategia di espansione in Tunisia e nell’Africa sub sahariana (l’alleanza con Boko Haram risale alla fine del 2014) usando la Libia senza governo come testa di ponte verso la Tunisia dove, già allora, aveva reclutato oltre 3.000 jihadisti. Dai campi di addestramento libici provenivano gli attentatori tunisini del Museo del Bardo (marzo 2015), della spiaggia di Sousse (giugno 2015) e di altri attentati minori tra Kesserine, nell’entroterra, e la periferia di Tunisi.
La risposta del governo tunisino è stata rapida. Lo scorso 4 luglio il governo tunisino ha adottato lo stato d’emergenza che dà alle forze di sicurezza maggiori poteri e limita le libertà collettive. Dopo la strage di Sousse, il governo Essebsi ha disseminato 1.400 soldati tra gli hotel e le spiagge del paese e ha annunciato, lo scorso 8 luglio, la costruzione di un muro lungo un terzo dell’intero confine condiviso con la Libia per impedire l’ingresso dei jihadisti nel paese. Altre misure anti terrorismo adottate dal governo si ispirano a quelle già intraprese in Egitto dal presidente Abdel Fattah al Sisi. Una in particolare ha suscitato polemiche, quella dello scorso aprile, denominata “Repressione degli attacchi contro le forze armate”. La pena per chi insulta un militare, secondo la bozza presentata in Parlamento, è salita a 5 anni; 2 anni per chi invece condivide informazioni sulle operazioni militari condotte nel paese; 10 anni per chi pubblica documenti relativi a operazioni di sicurezza. Una sorta di censura, molto simile a quella che ha provato a far passare il governo di Sisi in Egitto un paio di settimane prima (e poi ritirata). “La legge stabilisce una polizia di stato e il ritorno alla dittatura”, ha commentato il leader del Fronte popolare tunisino, Hamma Hammami. Poi, a maggio, il ministero per gli Affari religiosi ha approvato un registro che raccoglie i dati di chi va a pregare nelle moschee del paese e, subito dopo l’attentato di Sousse, ha chiuso 80 moschee che incitavano alla violenza religiosa.
La “Sisi’s way” nella lotta all’estremismo, insomma, è arrivata anche a Tunisi. Ma il clima oggi è cambiato e dopo i recenti attentati tra il Sinai e il Cairo (ieri intanto una nave egiziana è stata attaccata al largo delle coste del Sinai, colpita forse da un missile lanciato dalla costa) l’Occidente si interroga se qualcosa nella strategia del presidente egiziano non stia funzionando come ci si attendeva e se l’assunto “è un gangster, ma è l’unico che può rimettere le cose a posto” sia ancora valido ed efficace nella guerra all’estremismo. Lo scorso 8 luglio, il segretario alla difesa Ash Carter e il capo di stato maggiore, generale Martin Dempsey, si sono trovati in difficoltà nel rispondere alle domande della Commissione del Senato americano per le Forze armate. Qualche senatore gli ha fatto notare come nel Sinai lo Stato islamico stesse ancora avanzando, nonostante il rinnovato sostegno militare americano a Sisi. Dempsey ha annuito e si è limitato ad assicurare che la sicurezza dei 1.200 soldati americani impegnati nella missione militare dell’Onu nel Sinai sarà garantita.
[**Video_box_2**]Le risorse sono poche, l’integralismo è ben radicato ma la sola risposta militare al terrorismo potrebbe non bastare, come dimostrano gli ultimi episodi in Egitto e Tunisia. Aaron Zelin, esperto di estremismo islamico e ricercatore del Washington Institute, è intervenuto in audizione alla Commissione per gli Affari esteri della camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti e ha detto ai deputati americani che occorrono misure che incidano sulla realtà sociale, economica e politica della Tunisia, cercando di rimediare a quelle storture che finora hanno favorito l’islam radicale. Zelin ha spiegato anche le ragioni principali della radicalizzazione in Tunisia. Tra queste – ha spiegato ai deputati – ci sono la disparità dello sviluppo economico tra l’entroterra e la zona costiera, gli arresti sommari e la repressione adottata nelle carceri tunisine. I sistemi di tortura nelle prigioni sono la principale fonte di radicalizzazione dell’individuo, ha detto Zelin ai deputati, e molti degli attuali militanti di Ansar al Sharia, il gruppo qaidista più attivo nel paese, sono ex detenuti finiti nelle carceri con il regime di Ben Ali. Il giornalista tunisino Hedi Yahmed li ha definiti “i jihadisti di seconda generazione”, circa 3.000 oppositori del regime finiti nelle prigioni del regime dal 2001 in poi e rilasciati con un’amnistia dopo le primavere arabe. “Si rischia di ripetere gli stessi errori del passato che un ex militante del regime, quale è lo stesso Essebsi, dovrebbe conoscere bene”, ha detto Zelin.