Ian Bremmer

L'azzardo dell'occidente

Paola Peduzzi

L’accordo con l'Iran disegna un nuovo mondo, dice Ian Bremmer. Oggi fa paura, domani chissà. Nuove alleanze, nuovi mercati, nuovi equilibri, nuove aspirazioni anche. Barack Obama e con lui tutti i sostenitori del negoziato e dell’accordo dicono che questo nuovo mondo sarà “safer”, staremo meglio.

Milano. L’accordo con l’Iran sul programma nucleare non riguarda soltanto le centrifughe, le riserve di uranio o la conversione dei siti militari in laboratori di ricerca: l’accordo con l’Iran disegna un nuovo mondo. Nuove alleanze, nuovi mercati, nuovi equilibri, nuove aspirazioni anche. Barack Obama e con lui tutti i sostenitori del negoziato e dell’accordo – sono tantissimi – dicono che questo nuovo mondo sarà “safer”, staremo meglio, staremo più al sicuro, avremo più possibilità, non meno. Vista da qui e vista oggi, questa sembra una speranza più che una certezza, e anche Obama ne è consapevole quando ammette che ci sono parecchi problemi con l’Iran, che non si diventa amici in fretta, firmando lo stesso pezzo di carta, con chi ha nella sua stessa identità e programma il desiderio di annichilire l’occidente, grande e piccolo Satana soprattutto. E’ una scommessa che l’America e l’Europa hanno fatto a nome di tutti (Obama ammette anche che il nervosismo di Israele è legittimo), ma cosa si vince, e soprattutto cosa succede se si perde? Ian Bremmer, fondatore e direttore dell’Eurasia Group, autore di numerosi saggi di geopolitica, alcuni molto belli, dice che l’accordo con l’Iran è, nel senso stretto della questione nucleare, “molto debole”.

 

Poco dopo aver parlato con il Foglio, Bremmer ha tuìttato una vignetta meravigliosa (presa da investor.com) con uno scambio di battute tra Obama e la Guida suprema iraniana, Ali Khamenei. Obama dice: “Vogliamo che smettiate di arricchire uranio”. Khamenei risponde: “No”. Obama di nuovo: “Vogliamo che ci promettiate che non costruirete l’arma nucleare”. Khamenei: “No”. Ancora Obama: “Vogliamo che promettiate che alla fine prometterete che non costruirete l’arma nucleare”. Khamenei: “No”. E Obama: “Va bene, deal”. Khamenei: “Okay”. Il commento di Bremmer è: “L’America ha svenduto la baracca? Forse un po’”. “I prossimi mesi saranno molto difficili – dice Bremmer – Ci sono problemi a fare accettare l’accordo nei propri parlamenti e sono già evidenti gli intralci nell’implementazione, soprattutto nei controlli: dal punto di vista nucleare, questo deal è davvero debole”. Ci siamo venduti la baracca, ma la costruzione del nuovo mondo presenta altre variabili, soprattutto è decisivo capire come cambieranno i rapporti di forza: il regime iraniano resterà così forte, o emergerà il popolo iraniano, con la sua giovinezza e la sua inclinazione occidentale? “Nel breve periodo è il regime a vincere – dice Bremmer, con una buona dose di idealismo – nel lungo periodo sarà il popolo, perché quando un paese si apre al mondo, i primi a pagare sono i dittatori”.

 

Bremmer ricorda che negli equilibri geopolitici conta prima di tutto il petrolio, e l’arrivo dell’Iran sul mercato, con almeno un milione di barili di petrolio al giorno in più entro la fine del 2016, cambia tutto, “come è gestito l’Opec, lo strapotere saudita, il prezzo soprattutto, e a noi conviene che il prezzo scenda”, la ripartenza dell’occidente sguazza nella bonanza petrolifera. Non c’è solo il greggio però, l’economia iraniana vale 420 miliardi di dollari, il commercio con l’Europa può espandersi del 400 per cento, dagli 8,3 miliardi dell’anno scorso. “Gli effetti economici si rovesceranno anche sul Golfo”, dice Bremmer, dove regna il terrore e la rabbia – lo scontro tra sciiti e sunniti è destinato a inasprirsi, e di molto: le mire espansionistico-rivoluzionarie di Teheran sono ben esplicitate dal regime stesso – ma il business è per sua natura pragmatico, gli investitori arriveranno attratti da altri settori, “l’Iran non è soltanto un altro petrostato del medio oriente”, e “Dubai farà da rampa di lancio per gli investimenti destinati all’Iran”. Secondo alcune stime, il deal nucleare accelererà la crescita della Repubblica islamica, che con i suoi 80 milioni di persone è la seconda nazione più grande della regione, dell’8 per cento nei prossimi tre anni, e questo significa che gli iraniani in giro per il mondo torneranno, e porteranno nuova energia al paese. Cosa faranno, cambieranno il regime? Sorride Bremmer, dice che “di regime change e di petrolio l’Amministrazione Obama oggi non può parlare, per ovvie ragioni: se parli di petrolio, l’alleato saudita s’irrigidisce”, e già non è che i rapporti siano morbidi, “e se parli di regime change mentre negozi con il regime, è difficile che poi si arrivi a un accordo”.

 

[**Video_box_2**]Nulla fa pensare a una volontà di regime change da parte dell’occidente, ma Bremmer ha una sua opinione sulle sanzioni, come aveva ben spiegato nel saggio di qualche anno fa “The J Curve”: “Le sanzioni sostengono i regimi, alimentano la propaganda e tengono sigillato il paese. Per questo la Corea del nord non vuole rimuovere le sanzioni, perché se si apre il paese, il regime diventa più debole. L’Iran poi è del tutto diverso dalla Corea del nord, ha un livello di istruzione alto, le donne sono molto più coinvolte, e i nati dopo la Rivoluzione sono più di quelli nati prima. Nei prossimi trent’anni mi immagino un Iran molto più vicino all’occidente”. Vorrebbe dire che il popolo ha vinto, che il regime qualcosa ha dovuto cedere. Ma per ora è solo una scommessa fatta svendendo la baracca.

 

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi