Bombe e arresti
Perché Erdogan s'è mosso proprio adesso contro lo Stato islamico (e i curdi)
Roma. Perché lo Stato islamico ha deciso di attaccare frontalmente la Turchia provocando una prevedibile e durissima reazione? La domanda – per ora senza risposta – si pone con forza alla luce della decisione del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, di avviare una campagna aerea e di bombardamenti da terra contro lo Stato islamico (e contro postazioni del Pkk curdo) in territorio siriano, di fare arrestare da cinquemila poliziotti quasi trecento membri “in sonno” dello Stato islamico (e del Pkk) in 16 province turche – anche a Istanbul – e di concedere all’America l’autorizzazione a usare la base aerea di Incirlik in territorio turco per bombardare le postazioni del gruppo di al Baghdadi in Siria. Come è noto, i bombardamenti aerei hanno poca efficacia nel contrastare lo Stato islamico che, da quando sono iniziati nell’estate del 2014, è comunque riuscito ad aumentare del 30 per cento il territorio controllato. Ma resta il dato politico di svolta. Dopo due anni di posizione tanto ambigua da meritarsi l’accusa interna e internazionale di aperta complicità, Erdogan ha deciso due mosse decisive: l’attacco allo Stato islamico e l’inizio dell’intervento militare turco su suolo siriano. Un intervento che molti analisti (e l’opposizione turca) ritengono possa presto essere accompagnato da una operazione di terra e che potrebbe facilmente essere diretto non solo contro le postazioni dello Stato islamico e del Pkk, ma anche contro quelle del presidente siriano Bashar el Assad. L’esitazione della Turchia alle richieste della coalizione internazionale è sempre stata motivata da Erdogan col fatto che tanto andava colpito il movimento jihadista quanto andava abbattuto il regime baathista siriano, da lui considerato – e non a torto – causa prima dell’espansione del Califfato di Abu Bakr al Baghdadi.
Oggi la ragione contingente della svolta turca e dell’abbandono di questa pregiudiziale è tutta nei sanguinosi attacchi subiti dalla Turchia negli ultimi giorni: lunedì l’attentato che ha provocato 32 vittime a Suruç tra i giovani curdi radunati per andare ad aiutare la ricostruzione di Kobane, in Siria; mercoledì l’uccisione, rivendicata dal Pkk, di due poliziotti accusati di complicità con lo Stato islamico a Ceylanpinar; giovedì un poliziotto ucciso (senza rivendicazione) a Diyarbakir, “capitale” del Kurdistan turco e infine, sempre giovedì, un sottufficiale ucciso e un soldato ferito da colpi provenienti dalla Siria a cento chilometri da Suruç, nella regione di Kilis. Nel frattempo la Turchia non ha ancora un nuovo governo dopo le elezioni di giugno, ma il premier incaricato, Ahmet Davutoglu, fatica a formare una indispensabile coalizione e si profila a breve la possibilità di nuove elezioni – è un elemento da non sottovalutare, perché Erdogan ha tutto l’interesse a eccitare un clima di guerra per continuare a dominare il quadro politico interno.
[**Video_box_2**]Forse un domani si troverà la risposta alle ragioni che hanno spinto lo Stato islamico a provocare così sanguinariamente (se è vero che l’attentato di Suruç è opera sua) una reazione turca. Ma già da oggi si comprendono le mire del Pkk, che riprende la sua attività terroristica contro Ankara, nel momento in cui il risultato elettorale del partito curdo Hdp ha invece consolidato la possibilità di sviluppare una road map per la chiusura della guerra curdo-turca (40 mila morti), voluta da Erdogan e concordata nel carcere di Imrali nel 2013 con Abdullah Oçalan. Questa pacificazione è contestata dal ramo militare del Pkk che fa capo a Fehman Huseyin. Ma è ancora più contestata da Salih Muslim, leader del curdo Pyd siriano, che dopo la riconquista di Kobane e la conquista di Tell Abiad ha proclamato la “provincia autonoma curdo-siriana del Rojava”. Dunque oggi i curdi siriani del Pyd rafforzano la componente curda contraria alla pacificazione con la Turchia. Ecco così la guerra turca su due fronti: Stato islamico e Pkk-Pyd.