Il treno di Barack
Roma. Barack Obama, il presidente americano dell’apertura, delle mani tese, degli accordi azzardati ma simbolici, ha sempre voluto spalancare porte e chiudere soltanto una cosa: il carcere di massima sicurezza di Guantanamo. Lo dice dal gennaio del 2009, appena presidente allora annunciò che nel giro di un anno ce l’avrebbe fatta, era una di quelle promesse che contribuirono a creare l’immagine di leader del riscatto dopo gli anni del bushismo e degli scontri di civiltà, Nobel per la Pace compreso. Non è mai stato all’altezza di quelle aspettative, Obama, ma ora che le spilline con le bandiere gemelle di Stati Uniti e Cuba compaiono sulle giacche dei funzionari diplomatici, ora che persino gli ayatollah dell’atomica d’Iran sono stati convinti a mettere una firma su un accordo con l’occidente, ora che bisogna fare in fretta, perché manca poco alla fine del mandato, ed è necessario aggiungere elementi alla legacy, il desiderio di conquistare anche quell’obiettivo, basta con Guantanamo, è tornato urgente. Ce la farà?
A seconda dei giornali che si leggono e al netto del wishful thinking – che da sempre fa sembrare facile una chiusura che non lo è per niente: i giornalisti liberal si chiedono perché quell’obbrobrio sia ancora lì, pure fiscalmente non conviene, come se i conti a posto diventassero rilevanti soltanto se si tratta di Guantanamo – si può dire che la questione è tornata in alto nelle priorità, che l’Amministrazione ci tiene a farlo sapere, che c’è stata un’accelerazione nel mettere a punto una strategia, ma che i problemi di sempre sono ancora ben presenti. C’è la resistenza del Pentagono, da sempre riottoso sul dossier per ovvie ragioni di sicurezza, e c’è la metà degli attuali detenuti di Guantanamo che non è stata processata, non è rimpatriabile e non può essere trasferita negli Stati Uniti. Dove metterli? Che poi è il motivo originario per cui si decise di mettere in funzione il carcere nella base di Cuba.
Siamo “nella fase finale della bozza di un piano” per chiudere “safely and responsibly” Guantanamo e presentare il piano al Congresso, ha detto qualche giorno fa il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, smentendo un articolo pubblicato il giorno precedente dal New York Times. Il quotidiano spiegava che in realtà i lavori vanno a rilento, e il piano sta per collassare di nuovo. Il problema sarebbe il capo del Pentagono, Ashton Carter, che la settimana scorsa è stato convocato dal consigliere per la Sicurezza nazionale, cioè da Susan Rice, il pitbull dell’obamismo, che gli ha consegnato un memo che gli concedeva 30 giorni di tempo per decidere dei 52 detenuti di Guantanamo (per lo più yemeniti, quindi difficilmente rimandabili in patria, visto lo stato di guerra in Yemen) che possono essere trasferiti “se le condizioni di sicurezze sono garantite”. Ci sono altri 64 detenuti che non hanno ricevuto il via libera per il trasferimento: dieci di questi sono stati giudicati dalle commissioni militari, i restanti 54 non sono stati condannati per un reato specifico, ma sono considerati troppo pericolosi per essere trasferiti. Secondo il New York Times, Carter non ha voluto dare una data precisa per il trasferimento dei circa venti detenuti di cui si discute già da un anno, né è chiaro se abbia accettato la deadline proposta dalla Rice. Il suo predecessore, Chuck Hagel, era stato costretto a dimettersi anche perché non aveva oliato il sistema dei trasferimenti con la dedizione e la rapidità richieste dalla Casa Bianca: i dissapori con la Rice, diventata spietata organizzatrice della legacy del presidente, furono decisivi.
[**Video_box_2**]Il Congresso, a maggioranza repubblicana, al quale il Pentagono deve notificare con 30 giorni di anticipo i movimenti dei detenuti, è contrario ai trasferimenti e ricorda, ogni volta che la chiusura di Guantanamo ritorna prioritaria per Obama, che soltanto da gennaio a oggi sette dei 115 detenuti trasferiti dall’Amministrazione Obama sono tornati operativi nell’organizzare azioni terroristiche. Cioè sono recidivi.