L'occidente contro lo Stato islamico
Basta con inutili distinzioni, i curdi combattono la guerra al posto nostro
Milano. Dopo tre settimane di battaglia, ieri i curdi siriani hanno conquistato Sarrin, una piccola cittadina di seimila abitanti sulla riva est dell’Eufrate, a venticinque chilometri da Kobane, la città-simbolo della resistenza curda, che è la resistenza occidentale, contro l’avanzata dello Stato islamico. Senza Sarrin, il via vai di approvvigionamenti e combattenti tra Raqqa, “capitale” del gruppo di al Baghdadi in Siria, e gli avamposti jihadisti nella provincia di Aleppo è interrotto, o almeno andrà a rilento, e anche gli attacchi contro i curdi e i ribelli nel nord, lungo il confine con la Turchia, saranno, ci si augura, meno intensi.
Ogni vittoria dei curdi contro lo Stato islamico è una vittoria dell’occidente, e anche se molti fanno fatica a trovare comunanze con i curdi è difficile negare che senza questi coraggiosi “boots on the ground” la guerra contro al Baghdadi tra Siria e Iraq sarebbe ancora più complicata, se non impossibile. Abbiamo deciso di mettere insieme una coalizione regionale a guida americana che da quasi un anno bombarda dall’alto le postazioni dello Stato islamico, con qualche successo e molta incertezza, mentre sul terreno combattono soltanto i “locals”, come dice il gergo asettico dei bollettini di guerra, cioè principalmente i curdi, visto che le altre milizie, per lo più al soldo della Repubblica islamica d’Iran, sono difficilmente classificabili come alleate (ancor meno hanno a cuore la resistenza dell’occidente). I giornali si sono riempiti di racconti sul coraggio del popolo curdo, venerdì il Wall Street Journal raccontava la storia di Ruken, nome di battaglia di una combattente curda del Pkk con le lentiggini (il significato del nome comprende un misto di vita e di sorriso), una dei “marxisti alleati con l’America” che l’estate scorsa aveva aiutato a salvare gli yazidi assediati dallo Stato islamico attorno al monte Sinjar e che da allora si muove in queste terre senza confine per difendere gli avamposti alleati dagli assalti jihadisti. Le alleanze, in questa guerra per procura dalla strategia incerta, sono strane, contraddittorie, a volte persino perverse, ma quando la confusione è così alta, quel che conta è chi rischia la vita in difesa di quel che difendiamo noi – noi che continuiamo a pensare di non aver bisogno di inviare soldati sul campo per vincere.
[**Video_box_2**]Ora che la Turchia si è messa a combattere lo Stato islamico, dopo una settimana tragica di attentati – il più atroce è stato quello in cui 32 ragazzi sul confine tra Turchia e Siria sono stati sterminati da una bomba vigliacca nel centro culturale che organizzava la ricostruzione di Kobane –, le forze armate turche stanno anche attaccando postazioni curde, arrestano attivisti legati al Pkk e alle sue tante ramificazioni, facendo riscivolare nel conflitto quel cessate il fuoco che era stato siglato tra Ankara i curdi dopo uno scontro che, dal 1984 a oggi, ha fatto 40 mila morti. I turchi usano la guerra contro lo Stato islamico per contenere i curdi, dicono i comandanti sul campo, ora attaccati su più fronti, quando sono da almeno un anno i nostri soldati, finanziati e addestrati dai nostri governi ed eserciti (anche quello italiano, a Erbil, in Iraq). Non c’è bisogno di essere sostenitori della stato indipendente per capire come oggi siano decisivi i soldati curdi, anche se non rientrano perfettamente nei nostri schemi geopolitici, anche se possono avere, al fondo, ambizioni non sovrapponibili alle nostre: se c’è un modo per salvare la nostra libertà è a loro che dobbiamo dire grazie.