La campagna americana spiegata da Uber
New York. Un paio di settimane fa Jeb Bush ha usato una macchina di Uber per spostarsi da un evento elettorale all’altro a San Francisco, occasione creata ad arte per impartire una benedizione alla sharing economy (che ha adottato il nome più confidenziale di “gig economy”): “Uber realizza il sogno americano dell’autosufficienza”. Nemmeno il libertario Rand Paul si era spinto fino ad attribuire a Uber e ai suoi fratelli virtù morali intimamente americane, limitandosi a osservare l’efficienza del modello mercatista che incarnano: “Servizi come Uber, Airbnb e Lyft stimolano l’economia e abbassano i prezzi”. Marco Rubio vuole creare una “America sicura per Uber” e Ted Cruz, al solito prono all’esagerazione, si è autoproclamato “l’Uber di Washington”.
In questo confuso e trumpiano inizio di campagna elettorale si può ignorare il dibattito sull’immigrazione o sulle aliquote fiscali, ma occorre avere un’opinione su Uber. L’azienda spunta in tutti i discorsi e in tutte le interviste, viene usata per fare metafore con settori che non c’entrano nulla con i trasporti, incarna l’idea stessa della “disruption” di un modello sociale. Chi non ha un’opinione su Uber è automaticamente contrario. Così il silenzio di Bernie Sanders, socialista combattivo e minoritario che pesca nel bacino elettorale dei millennial arrabbiati per le diseguaglianze economiche, è più esplicito di molti proclami. Hillary Clinton non ha potuto evitare di toccare la “gig economy” nel suo discorso sulla politica economica, e senza citarlo ha bastonato Uber e il mondo che rappresenta, roba da “furto dello stipendio”, pieno di “capi che riducono i lavoratori a contractor”.
Il riferimento era alla sentenza di un tribunale della California secondo cui gli autisti freelance di Uber hanno il diritto di essere assimilati al dipendenti a tempo pieno. E’ appena normale che a questo punto la sinistra mainstream debba blandire la corrente più estrema del partito democratico, quella di Sanders ma anche del sindaco di New York Bill de Blasio, che con Uber sta combattendo una battaglia talmente dura che la compagnia ha mandato sulla east coast come emissario belligerante David Plouffe, ghostwriter dell’obamismo finito a veicolare innovazioni dalle parti della Silicon Valley. Dan Pfeiffer, suo ex collega alla Casa Bianca e compagno di mille battaglie della comunicazione politica, lato democratico, ha twittato: “I politici progressisti stanno facendo un errore enorme posizionandosi contro la sharing economy. Dobbiamo ispirare il futuro, non opporci a esso”. La giornalista economica di Bloomberg View Megan McArdle ha però un’altra spiegazione per l’ossessione da campagna elettorale per Uber, che ha a che fare con il reale peso della “gig economy” e con il ruolo dei giornalisti in una fase in cui l’industria dei media sta passando una rivoluzione simile a quella dei vecchi taxi con licenza erogata a livello centrale e sindacato protettivo.
Uno studio del Wall Street Journal su cui McArdle si appoggia dice che la sharing economy occupa una fetta minima, circa il 5 per cento, dell’economia, la stessa che ha occupato negli ultimi decenni. Il 95 per cento degli americani che ha un lavoro è impiegato full time con contratti tradizionali, e i dati del governo parlano di una leggerissima, quasi impercettibile, crescita del numero di persone che sbarcano il lunario con più di un lavoro (il classico caso dell’autista di Uber che arrotonda portando in giro clienti per qualche ora alla settimana, quando non è alla scrivania). Di scuola libertaria, McArdle non solo non ha alcuna animosità verso Uber ma è stata una delle prime giornaliste a cogliere e magnificare il potenziale enorme di un servizio nato per riparare i “market failure” dei trasporti e ottimizzare il rapporto fra domanda e offerta. Eppure lei stessa ora ammette che Uber e gli altri non hanno (ancora) fatto la rivoluzione che promettevano. Perché allora Uber è una keyword della campagna elettorale? Questione di percezione e distorsione giornalistica, dice McArdle.
Uber va forte e suscita polemiche nelle grandi città, dove girano soldi e c’è domanda di mobilità; e dove, non proprio incidentalmente, c’è anche la stragrande maggioranza dei giornalisti che fanno da cassa di risonanza ai dibattiti nazionali. E si dà il caso che i giornalisti nel mezzo di un’industria in crisi e ridefinizione si sentano un po’ come i tassisti, minacciati da orde di freelance che possono fare il loro stesso lavoro – tendenzialmente un po’ peggio ma superando la non proprio altissima soglia della decenza fissata dagli editori – a un prezzo più basso. Spesso anche gratis, in cambio della firma, dettaglio che rinfocola promesse di un lavoro stabile per chi scrive e intanto bastona il mercato dei professionisti, i giornalisti con la licenza, per dir così. E’ per questa sovrapposizione fra industrie in crisi, condita da polemiche locali e furori sindacali, che la “gig economy” è diventata una categoria inevitabile del discorso politico. Ma per toccare gli effetti della rivoluzione ci vorrà ancora un po’.
Twitter @mattiaferraresi