Perché sono una conservatrice
Alla fine degli anni Settanta, mi sono iscritta in un liceo sperimentale. Gli studenti erano per lo più una specie di hippie innamorati della natura. Non degli hippie infervorati, vistosi e un po’ maleducati, piuttosto degli hippie che mangiano muesli, fanno lo yogourt in casa, mettono gli stivali da lavoro, e che si dilettano anche in qualche rischioso “sex and drugs”.
Questi hippie erano soprattutto figli di genitori progressisti abbienti che hanno comprato immense ville con il loro trust e che avevano cresciuto i bambini con paradigmi il più possibile progressisti. Molti degli altri amavano la droga e il rock-n-roll. Pochi di noi, figli di genitori della working call che andavano a scuola grazie a una borsa di studio, erano un pochino più vicini alla normalità. Io vengo da una famiglia istruita della working class, mio padre era un insegnante della scuola pubblica.
Ricordo alcuni studenti un pomeriggio seduti in cerchio che parlavano della bellezza dei nativi americani e del loro rispetto per la natura, ricordando che quando i nativi uccidevano un animale, come prima cosa pregavano per ringraziare gli dei, gli avi, o forse l’animale stesso. I miei compagni di scuola parlavano di come i nativi onorassero l’animale che avevano ucciso usandone ogni parte e non sprecandone nessuna: la carne per mangiare, la pelle per i vestiti, le ossa per gli attrezzi e i gioielli, i tendini per le corde, gli zoccoli per i sonagli e le campane. Potevo sentire lo stupore che tutto ciò ispirava nei miei compagni di scuola. Si sentivano illuminati, come se fosse stata rivelata una verità.
La mattina successiva, portai a scuola un panino con lo scrapple (una specie di pane con avanzi di maiale, che si taglia a fette, ndr). Un amico che aveva la sua maglietta di calicot d’ordinanza, i leggings e gli stivaletti da lavoro (ma non il deodorante) si avvicinò e mi chiese che cosa stavo mangiando. “Scrapple”, risposi. “Cosa? Ma è disgustoso, sai che cosa ci mettono in quella roba?”. Così la “teoria dello Scrapple” si insinuò dentro di me alla tenera età di 16 anni.
Per quelli che non lo sanno, lo scrapple è fatto di farina, maiale e spezie cotte assieme, raffreddato, tagliato e poi fritto nel burro. Si mangia spesso con la salsa di pomodoro, un bel contrasto tra la dolcezza e lo speziato. E’ una specialità molto americana del Pennsylvania Dutch (i tedeschi della Pennsylvania). Era originariamente fatto con gli scarti del maiale che non potevano essere venduti o utilizzati in altro modo, in modo da evitare sprechi!
Starete capendo dove voglio arrivare. Secondo i miei compagni di scuola, i nativi americani che onorano un animale usando tutte le sue parti sono esseri nobili a contatto con la natura. Al contrario, un contadino tedesco che usa tutto quel che può di un animale è ripugnante e disgustoso. L’illuminazione sul panino con lo scrapple è stata una delle mie prime scoperte dell’ipocrisia ubiqua dei liberal progressisti.
Ho iniziato a capire che se un atto, una religione o una tradizione viene dalla cultura occidentale europea e americana, è una cosa ridicola, e magari persino un po’ oppressiva. Se viene da un’altra parte di mondo e da un’altra cultura, come la Cina, India, Africa o anche l’America pre colombiana, è ammirevole e profonda, qualcosa da imitare. Le perline dei buddisti sono meravigliosamente spirituali, ma il rosario è il simbolo di un’oppressione misogina e fascista. C’è un’intolleranza xenofila invece che xenofoba, l’odio per la propria cultura. Che è diventato una parte talmente normale della cultura da evolversi nell’odio per sé così pervasivo oggi.
Poco dopo la nascita della teoria dello scrapple, ho preso un passaggio da un amico ricco hippie sulla Volvo station wagon di sua mamma per andare a un concerto al Goucher College. Mi disse che la vita sarebbe stata molto più cool se fosse arrivata l’anarchia nel nostro paese. Così la gente avrebbe potuto fare quel che volva. I “maiali” schifosi e “gli uomini schifosi” non avrebbero avuto il controllo. Già a conoscenza delle consequenze reali dell’anarchia, dissi: “Non capisci che saresti una delle prime persone ammazzate, che le persone non più controllate dai ‘maiali’ come prima cosa ti ruberebbero tutte le tue cose?”. Mi guardò perplesso e si rese conto che io non ero poi così cool come lui si era immaginato.
Ero ancora giovane e non avvezza alle discussioni politiche serie, ma sono cresciuta in una famiglia in cui si parlava di politica. I telegiornali si vedevano alla mattina e alla sera, i miei genitori parlavano delle notizie del giorno a cena, ma io stavo ancora imparando. Per i 17 anni successivi, dalla fine degli anni Settanta agli anni Ottanta, ho studiato e lavorato nel mondo dell’arte e del teatro. Lì ero circondata dagli illuminati certi che tutto quel che era liberal era buono e tutto quel che era conservatore era il male. In fondo, il presidente Nixon non era poi così lontano (anche se oggi Nixon pare uno della squadra universitaria junio rispetto agli scandali nelle amministrazioni di Clinton e Obama).
Ero sicura di essere dalla parte del giusto, ma sentivo comunque del disagio. Leggevo “Il giovane Holden” di Salinger, “Sulla strada” di Kerouac, “Gli insegnamenti di Don Juan” di Carlos Castaneda aspettandomi quel risveglio illuminato che i miei amici professavano, ma i libri mi sembravano sempre piatti. Non coglievo nulla. Mi chiedevo che cosa ci fosse di sbagliato in me. Poi ho capito che non c’era molto da cogliere. Quei libri erano “crap”.
Ma ho anche letto la teologia di CS Lewis e George McDonald, i romanzi di Ayn Rand e Elizabeth Gouge, i classici come le “Storie” di Erodoto, le “Confessioni” di Agostino, la filosofia e le pièce degli antichi greci e di Shakespeare. La mia fede era forte, ed era una costante, e andavo agli incontri con altre persone che frequentavano le messe che irritavano tanto i miei amici liberal. Mi dicevano: “Come può una intelligente come te credere a un nonsense come questo, specialmente il dogma cattolico?”. Ironicamente loro credevano nelle rune, nei tarocchi, nel soprannaturale, nelle séances, e in ogni altra idiota moda passeggera in cui si imbattevano.
Sono stata un po’ liberal e un po’ conservatrice. Il mio primo voto alle presidenziali è stato per Ronald Reagan nel 1980 e nel 1984, seguito da una serie di voti agli indipendenti o ai libertari, perché non riuscivo a sceglierne uno dei partiti principali. Anche se non pensavo a me come a una conservatrice, negli anni avrei iniziato a discutere con gli amici liberal di tasse, big government, stato sociale, doppi standard e affirmative action. E di solito loro non erano mai d’accordo con me.
Una volta ho discusso di aborto con una cameriera e uno dell’amministrazione di un ristorante in cui lavoravo. Dissi che non ero sicura di come mi sarei sentita, che capivo perché molti volessero rendere legale l’aborto ma che comunque mi metteva molto a disagio l’idea di negare una vita. La mia amica cameriera ripristinò quell’urlo offeso che ormai mi è famigliare, come gli urli dei classici della fantascienza degli anni Settanta: “Coooosa? Sei pazzaaaaa? Sei una donnnnnnaaaa!”. Non c’era più bisogno di continuare, e così mi misi a tacere.
In un altro caso, un’amica liberal prese, grazie a una borsa di studio, una laurea che permetteva di insegnare, ma insegnare si rivelò troppo difficoltoso. Aveva avuto la borsa di studio in quanto madre single divorziata che viveva con aiuti statali. Smise di insegnare e tornò a farsi aiutare dal sistema pubblico. E mentre riceveva questi sussidi, dava in affitto le sue diverse proprietà, e aveva un conto in banca nel quale versava centinaia di sterline. Passava la maggior parte del giorno a giocare coi figli.
[**Video_box_2**]Un’altra amica aveva tre figli con un uomo che non sposò finché non arrivò il terzo figlio. Lui era un violento, cosa che lei sapeva abbastanza bene prima di avere il secondo e terzo figlio, e alla fine dovette lasciarlo. Viveva nella casa della madre senza alcun costo. Riceveva anche sussidi e buoni spesa. Alla fine anche lei andò all’università per niente, mentre io mi facevo carico di un prestito per studiare e lavoravo a tempo pieno per sopravvivere. Vissi con lei per un breve periodo, mentre attraversavo un periodo particolarmente difficile. Ero grata della sua generosità nel darmi una stanza gratis. Un giorno tornò arrabbiata dal negozio di alimentari. Il negozio aveva un’offerta su gamberi freschi cotti al vapore. Ne aveva ordinate due libbre ed era in fila alla cassa, quando le avevano detto che non poteva comprare pasti caldi con i buoni spesa. Era la benvenuta se avesse voluto comprare gamberetti freschi, per poi cuocerli lei stessa al vapore, ma gamberetti freschi gratis pagati dai lavoratori americani per lei non erano abbastanza. Mi disse: “Anche chi vive con i buoni pasto ha diritto al lusso”. Con suo grande disappunto le risposi: “No, non ce l’hanno. Hanno diritto a mangiare, e dovrebbero essere grati per questo”. La mia amica non ne fu molto contenta.
Più tardi, mentre lottavo per sopravvivere e finire la mia laurea triennale, lei riuscì a prendere la sua magistrale, anch’essa senza alcun costo. Iniziammo entrambe a insegnare nello stesso periodo, ma lei veniva pagata molto di più vista la sua laurea, che io non mi ero potuta permettere, e lei non aveva neppure un prestito studentesco da ripagare.
Iniziai a vedere come le politiche liberal premiassero le scelte dei poveri, penalizzando al contempo quelli che lavoravano duramente, non rimanevano incinta da teenager, e dovevano prendersi cura di se stessi da soli. La cosa mi irritò profondamente. Piano piano, iniziai a capire che il pensiero liberal era ipocrita e distruttivo, mentre il conservatorismo promuoveva davvero la libertà individuale, l’indipendenza, l’equa e imparziale applicazione delle leggi per ciascun individuo, e lo small governement. Pensavo fossero idee che andassero bene ai liberal, in particolare quelli hippie-style. Ma mi sbagliavo.
Iniziai poi a insegnare in un liceo pubblico di Baltimore City, uno dei peggiori. Fu chiusa poco dopo che iniziai a lavorare lì. All’inizio le basse aspettative, sia accademiche sia comportamentali, mi sconvolsero. Non esisteva alcuna struttura che potesse aiutare gli insegnanti con studenti particolarmente difficili. Agli studenti non si chiedeva nulla più degli standard di base del comportamento, quindi alzare la mano prima di parlare o non usare linguaggio inappropriato nella classe. I compiti a casa erano ritenuti obsoleti. Se chiamavo dei genitori a causa del comportamento scorretto dei loro figli, mi veniva risposto che non erano in grado di controllare i loro figli fin da quando avevano 12, 13 anni. Spesso mi dicevano di non disturbarli più! Alcuni genitori erano invece davvero interessati, ma l’atmosfera frenetica della scuola andava contro qualsiasi persona volesse imparare. La presenza giornaliera in classe viaggiava attorno al 50 per cento. Gli studenti del primo anno erano 400, quelli dell’ultimo circa 100, e solo 75 si sarebbero diplomati alla fine dell'anno.
Alla fine del mio primo anno di insegnamento, bocciai una delle mie senior. Aveva fatto pochissimo del lavoro datole, aveva un livello di lettura da quarta elementare, e non conosceva la differenza fra la pagina delle dediche di “Island of the Blue Dolphins” e la lista dei personaggi di un’opera. Avevo cercato di lavorare con lei durante tutto l’anno, ma era più assente che presente. L’intera amministrazione nonché i consiglieri del college mi pregarono di promuoverla. Il ragionamento era che se non l’avessi fatta passare, si sarebbe rifiutata di andare alla scuola estiva e quindi non si sarebbe mai diplomata. Dovevo promuoverla, o le avrei rovinato la vita. Si meritava di avere la vita rovinata, mi chiedevano? Dissi loro che potevano fare ciò che volevano, ma che io non ci avrei avuto nulla a che fare. Si diplomò, e ancora non era funzionalmente alfabetizzata.
La mia nozione di liberal/conservatore iniziò lentamente a invertirsi. Come in una di quelle illusioni ottiche dove ci sono due immagini in una, una volta che iniziai a vedere la seconda immagine, non potevo più farla sparire. A volte la seconda immagina diventa primaria e la prima non era più visibile. Nell’articolo “Le cose che non puoi far sparire (e cosa dicono della tua mente)”, Alexis C. Madrigal scrive: “Le persone riportano questo tipo di cose continuamente, e usano la stessa frase: non posso farla sparire. Alcuni individuano qualcosa, e improvvisamente appare un’interpretazione secondaria dell’immagine. C’è qualcosa di vagamente inquietante in ciò, anche quando le immagini sono innocue. Abbiamo un lampo di consapevolezza e un nuovo pattern si rivela, nascosto nel mondo che pensavamo di conoscere. Ci sorprende”. Quella è una papera. No – è un coniglio!
Per me, “ecco una politica liberal giusta e compassionevole” diventava “ecco una politica di collettivismo distruttivo e di eccessiva azione governativa.” Niente me lo fece apparire tanto chiaro quanto osservare le pratiche e le politiche distruttive implementate nelle scuole pubbliche e nei quartieri poveri. Politiche che pretendono di aiutare ma che quasi sempre causano danni irreparabili: un sistema di welfare che distrugge le famiglie nere, trasporti scolastici che rovinano un sistema scolastico una volta fiorente e che spesso riusciva a servire bene anche gli studenti poveri, tasse e regolamenti che fanno fallire i business, che portano con loro posti di lavoro che fornivano un decente livello di vita a cittadini non particolarmente istruiti, quartieri di classi medie e lavoratrici che diventano bassifondi infestati dai ratti. Tutti perdono.
Una volta che avevo iniziato a capire, realizzai che non ero mai stato una liberal, ma sempre una conservatrice, che credeva nell’indipendenza, nella libertà individuale, in uno stato non invasivo, nell’uguaglianza individuale di accesso alle opportunità. Una volta che avevo iniziato a capire, non potevo tornare indietro. Non potevo far sparire tutto.
Ci sono così tanti americani che sono liberal e democratici solo perché è quello che sono sempre stati, e perché questa è presentata come l’unica posizione umana e intelligente che si possa avere - eppure non vivono come liberal. Sono per la famiglia e contro l’aborto, vogliono posti di lavoro, non la carità, credono che a volte sia necessaria la pena di morte, vogliono avere il diritto di possedere armi per proteggere la loro famiglia, e vogliono che il governo se ne stia fuori dalle loro scuole, chiese e case. Se riuscissimo a far vedere loro le cose come stanno, allora non potrebbero più farle sparire, e potremmo riuscire a mettere a posto l’America.
Dana Casey è una professoressa di inglese, scrittrice e artista. Ha un blog che si chiama CandidDiscourse. Questo articolo è stato pubblicato su The Federalist (traduzione di Sarah Marion Tuggey).