Narcos e complotti
Roma. Anche nei periodi più bui della guerra contro il narcotraffico, Città del Messico è sempre stata un piccolo santuario lontano dalle violenze della periferia. In questi ultimi dieci anni ci sono stati pochi grandi fatti di sangue che hanno turbato la vita della capitale messicana, e uno di questi è avvenuto sabato, quando Rubén Espinosa è stato ucciso con un colpo di grazia alla testa insieme a quattro giovani donne in una casa del quartiere di Narvarte. Tutti e cinque avevano altri fori di proiettile sul corpo, e segni di tortura. Le donne, dicono alcune fonti non giudiziarie, erano state stuprate. Espinosa era un fotoreporter famoso, oppositore vociante del governo, originario dello stato costiero di Veracruz, dal quale era fuggito perché riceveva minacce di morte. Per le minacce e per le violenze aveva denunciato il governo locale di Veracruz, comandato dal governatore Javier Duarte, sotto il cui mandato lo stato costiero è diventato uno dei posti più pericolosi del mondo in cui esercitare il giornalismo.
Domenica in tutto il Messico ci sono state proteste importanti per denunciare la violenza contro i giornalisti, e la folla non si faceva scrupolo di denunciare Duarte come complice del delitto. Anche il settimanale di giornalismo investigativo per cui Espinosa lavorava, Proceso, ha scritto che le indagini per la morte del “giornalista scomodo” devono indirizzarsi sulle minacce ricevute dal governo di Veracruz, e questo è un modo velato di accusare Duarte quanto meno di connivenza. Ce ne sarebbe abbastanza per far cadere un governo o chiudere un giornale – a seconda della fondatezza delle accuse – ma in Messico nessuno si scompone più di tanto, perché nell’èra della guerra contro il narcotraffico, iniziata nel 2006 e mai davvero finita, è normale immaginare che i politici coprano un quintuplo omicidio come potrebbero commissionare l’appalto per la costruzione di una sala da concerto, che tra la mafia dei palazzi e la mafia della droga non ci sia molta differenza, e che anzi narcos e politica siano parte dello stesso problema. Il Messico è diventato la terra del complotto, un paese disorientato dove la corruzione è così diffusa che cronaca e cospirazione si confondono tra loro, accuse gravissime sono lanciate e mai smentite o confermate. A ogni nuovo delitto i complotti escono dai blog e dalle chiacchiere da bar, si istituzionalizzano, finiscono sui giornali e sulle copertine dei magazine, infine nei discorsi dei politici.
[**Video_box_2**]Il complotto è esploso perfino sui solitamente austeri media americani questo mese, quando Joaquín “el Chapo” Guzmán, il narcotrafficante più potente del mondo, è evaso per la seconda volta nella sua carriera sparendo in un tunnel sotto al carcere di massima sicurezza di Altiplano. E’ impossibile credere che il governo messicano si sia lasciato sfuggire per due volte l’uomo più sorvegliato del mondo, e così perfino l’Atlantic, facendo parlare degli esperti, arriva a insinuare che il governo l’abbia lasciato fuggire, che dietro all’evasione del secolo ci sia una strategia raffinata per mettere tutto il mondo violento e fuori controllo del narcotraffico sotto un’unica guida, e dare al governo un unico interlocutore criminale. Questa teoria affiora periodicamente, come un fiume carsico, senza differenze tra le pagine dei giornali e quelle dei romanzi, da ultimo “The Cartel”, di Don Winslow. E’ quasi un sapere condiviso in Messico, e forse è più confortante pensare a una trama elegante che alla catena terribile di incompetenze e corruzione e violenze senza colpevoli che è la vita del Messico al tempo del narcotraffico.