Tenere i piedi in due boots
I voli dei jet americani: decollare con i turchi e bombardare con i curdi
Roma. Lunedì due donne hanno sparato contro il consolato americano a Istanbul, la polizia turca le ha intercettate, una è stata uccisa e l’altra ferita. La sigla di estrema sinistra che poche ore dopo ha rivendicato l’attacco, il Partito-Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo (Dhkp-c), appartiene a una fazione piccola, che compie attacchi minori e senza continuità (l’ultimo nel 2013 contro l’ambasciata americana a Ankara, morì una guardia turca). La realtà è impossibile da non vedere: una parte della Turchia coltiva un feroce sentimento antigovernativo e anche antiamericano, e imbraccia le armi – senza contare i gruppi legati al jihad che si muovono nel paese quasi come se avessero un “diritto di passaggio” verso la Siria e l’Iraq.
In prima linea in questo scontro con Ankara c’è il Pkk, il partito dei curdi comunisti, che ha rotto da poco la tregua dopo avere subìto i bombardamenti aerei turchi e che lunedì ha ucciso cinque soldati in due attacchi vicino al confine, 24 in un mese. E qui viene l’ambiguità strategica in cui sono finiti gli Stati Uniti. Domenica Washington ha mandato sei aerei F-16 e trecento militari nella base turca di Incirlik per bombardare lo Stato islamico in Siria e Iraq, dopo lunghe trattative con il governo. Ma i piloti americani che decollano da Incirlik (e anche gli altri) si servono anche delle coordinate fornite con precisione dai combattenti curdi vicini al Pkk a terra (con telefono, radio e un pad collegato a internet) per colpire le postazioni dello Stato islamico. Come racconta un bel reportage uscito lunedì sul New York Times, il curdo che dirige i bombardamenti ha sullo schermo del telefonino l’immagine di Abdullah Ocalan, il leader storico del Pkk. Quanto può reggere questa relazione a tre?