Fra dire e chiudere Guantanamo c'è di mezzo il Pentagono
New York. L’ostacolo più difficile da aggirare fra l’eterna promessa di Barack Obama di chiudere il carcere speciale di Guantanamo e la sua realizzazione è il segretario della difesa, Ash Carter. Obama aveva scelto questo fedele pretoriano del Pentagono per tenere la barra dritta in tempi di disimpegno militare e tagli del budget, ma ora che il presidente ha ravvivato, per l’ennesima volta, il proposito enunciato con un ordine esecutivo nel suo primo giorno alla Casa Bianca, Carter non risponde ai comandi. Lisa Monaco, consigliere di Obama sulla sicurezza, ha snocciolato i dettagli del piano alcune settimane fa: trasferire i 64 prigionieri più pericolosi – poco più della metà della popolazione carceraria – negli Stati Uniti per un processo civile e sveltire le procedure per portare tutti gli altri in paesi terzi disposti ad accoglierli.
Obama sa che l’impresa è complicata, e in questi anni ha sperimentato infinite frustrazioni nel tentativo di smantellare l’apparato legale costruito dopo l’11 settembre, ma vuole tentare un colpo di reni nell’ultimo tratto della presidenza per sigillare definitivamente la legacy della mano tesa e della fine della guerra al terrore. Il problema è che una stratificata serie di leggi dà al segretario del Pentagono, e non al presidente, l’ultima parola nella decisione sul trasferimento di 52 detenuti di Guantanamo. Altre agenzie di sicurezza hanno già rivisto i loro casi e dato parere positivo per i trasferimenti, ma la firma finale, con annessa assunzione di responsabilità, spetta a Carter. Il quale però, come scrive il Daily Beast, ha messo con zelo il suo timbro sui dossier di alcuni detenuti, ma poi il flusso si è bruscamente interrotto. A complicare ulteriormente le cose c’è il fatto che 43 dei 52 detenuti che hanno ricevuto il primo via libera sono yemeniti, e il Pentagono non vuole rimandarli nel caos dello Yemen, sapendo bene che l’impalpabile governo non avrebbe le capacità né l’interesse di controllarli.
Per chiudere la prigione entro la fine del mandato di Obama, gli Stati Uniti dovrebbero liberare un prigioniero ogni dieci giorni. La Casa Bianca vorrebbe che le procedure di autorizzazione diventassero una formalità, e che Carter eseguisse il compito con obbedienza notarile, ma il meccanismo non funziona a dovere, perché il segretario non ha intenzione di garantire con la sua firma il destino dei detenuti una volta rilasciati. Il Pentagono ha calcolato che il 30 per cento dei prigionieri usciti dal carcere nell’isola di Cuba si sono nuovamente uniti ad al Qaida e ad altri gruppi affini. Citando fonti del dipartimento della Difesa, il Daily Beast scrive: “La Casa Bianca crede che Carter non sia disposto a prendersi la responsabilità del trasferimento dei detenuti di Guantanamo e della loro condotta dopo la liberazione, fino al punto di scontrarsi con le posizioni del presidente sulla questione”.
[**Video_box_2**]Obama ha minacciato di mettere il veto al budget del Pentagono per piegare le resistenze politiche della gerarchia militare alla chiusura del carcere, e contestualmente alcuni funzionari della Casa Bianca suggeriscono di spingere, giocando di sponda con il Congresso, un disegno di legge che trasferisca l’autorità necessaria al commander in chief. Ammesso che Obama trovi lo spazio politico per riuscire nell’impresa, la manovra è complicata e richiederebbe tempo, così dalla Casa Bianca preferiscono continuare a mettere pressione su Carter. Eppure il segretario era stato chiaro nella sua testimonianza al Congresso per l’approvazione della nomina: non avrebbe ceduto alle pressioni dell’amministrazione per chiudere Guantanamo, e anzi, aveva detto, “non ci sarà alcuna pressione”. Nella stessa udienza aveva detto che di “non avere fiducia” nel progetto della Casa Bianca di chiudere il carcere.