La passione della Cina per guru e ciarlatani porta molti, molti guai
Milano. La sera del 9 luglio tre uomini armati bloccano l’auto di Zou Yong, dirigente di una società petrolifera statale e funzionario di livello medio-alto del Partito comunista cinese. I tre rapiscono Zou, lo conducono in una località imprecisata, lo uccidono, fanno a pezzi il cadavere e lo scaricano nel lago Poyang, che qualcuno ha ribattezzato “il Triangolo delle Bermuda Cinese” a causa del migliaio di pescatori inghiottiti dalle sue acque nel corso degli anni. Siccome la superstizione è un’arma a doppio taglio, o forse perché con l’inquinamento spariscono anche i laghi maledetti di una volta, nel giro di qualche giorno la polizia ritrova il corpo, lo identifica, e arresta quattro persone. Secondo gli investigatori il mandante dell’omicidio è il famoso maestro di qigong Wang Lin, un guru che ha insegnato i segreti di questa ginnastica dolce tra la medicina tradizionale e le arti marziali a celebrità come l’attore Jet Li e il ceo di Alibaba Jack Ma, e vanta frequentazioni con gli ambienti più esclusivi del potere cinese attraverso adepti come le sorelle degli ex leader Hu Jintao e Jiang Zemin. Anche se il guru Wang ha sempre sostenuto di evocare i serpenti, guarire il cancro e influenzare la carriera dei funzionari, il movente dell’omicidio è molto terreno: nel 2009 il defunto Zou aveva pagato 5 milioni di yuan (circa 715 mila euro) per entrare nella scuola di Wang e aveva perfino regalato al maestro una Rolls Royce, ma quattro anni dopo i due erano arrivati a scontrarsi in tribunale per il controllo di alcune proprietà di valore situate a Shenzhen e Hong Kong.
Il caso Wang Lin sembra la solita vicenda del santone ciarlatano, pressoché identica in tutte le latitudini, ma se ambientata nella Cina del 2015 diventa emblematica: si tratta di quella zona tenebrosa a cavallo tra le speculazioni immobiliari e finanziarie, delle lotte segrete tra cordate di potere, della fascinazione per il misticismo e l’occulto che sta caratterizzando sempre di più le élite di Pechino.
Poche settimane dopo l’arresto del maestro di qigong è stato il turno di Shi Yongxin, il controverso monaco buddhista a capo del santuario di Shaolin. Il corpulento Shi, un fisico più adatto ai banchetti imperiali che al kung fu – già molto criticato per la trasformazione del (presunto) luogo di nascita delle arti marziali in un brand di successo da sfruttare a colpi di merchandising e filiali internazionali nel sudest asiatico e in Australia – oggi deve vedersela con pesanti accuse di corruzione e appropriazione indebita, mentre sui social network locali si moltiplicano voci sull’altro ingrediente indispensabile per uno scandalo di successo: il sesso, che il mistico Shi avrebbe ampiamente consumato sia con le adepte sia con prostitute reclutate all’occorrenza.
Sempre in questi giorni, a Hong Kong, va di scena un processo che dopo il qigong e il buddhismo zen del monastero Shaolin colpisce un altro pilastro della spiritualità orientale, il feng shui, l’arte taoista di disporre mobili ed edifici per ottenere benessere sfruttando le correnti della terra. Alla sbarra ci sono tre sedicenti maestri accusati di aver truffato Nina Wang, l’imprenditrice che fino ai primi anni 2000 era la donna più ricca d’Asia, vendendole per 402 milioni di dollari di Hong Kong (46 milioni di euro) un set di antichi vascelli di giada dalle capacità taumaturgiche. I soprammobili si sono rivelati falsi e non hanno guarito la miliardaria, che nel 2007 è morta di cancro.
[**Video_box_2**]Ora, la storia cinese è piena di ambigui monaci che traggono profitto da leggende e credenze ancestrali. Dal Tibet del quattordicesimo secolo risuona ancora potente la vicenda del Shagdun Sangye, il “Buddha dei Sette Giorni”, che prometteva l’accesso diretto al nirvana in una settimana di ritiro spirituale. Il Buddha si rivelò un serial killer che gettava i discepoli in un pozzo nascosto nella sua caverna di meditazione dopo averli derubati e uccisi. Ma il ritorno di queste credenze nella Cina materialista ha qualcosa di ironico. Se già due anni fa un quotidiano ufficiale come il Guangming Ribao scriveva che “falsi maestri e mistici non sono mai stati così diffusi”, ormai pare quasi che dietro la superficie razionale di ogni solerte funzionario del Partito comunista si nasconda il praticante di geomanzia, chiromanzia e varie forme di meditazione. Secondo quanto racconta un dirigente anonimo alla Reuters, in alcuni ristoranti di Pechino si svolgono periodicamente riunioni di leader desiderosi di farsi predire il futuro politico da selezionati maestri buddhisti. E la pratica di quelle che il Partito bolla ufficialmente come “superstizioni” può avere anche effetti devastanti sulla carriera: tra le accuse che hanno condotto alla rovina Zhou Yongkang, l’ex potentissimo capo dei servizi di sicurezza cinesi, il più alto funzionario del Partito mai processato in via ufficiale, c’è quella di aver praticato “attività superstiziose e feudali che hanno causato enormi perdite alle finanze statali”. Secondo la commissione disciplinare Zhou avrebbe condiviso documenti riservati, non con una potenza straniera né con altri leader, ma con il suo maestro di qigong.
Ormai da quasi tre anni la spietata campagna anticorruzione lanciata dal presidente Xi Jinping sta mietendo vittime nelle più alte sfere del potere cinese, e si rivela nello stesso tempo lo strumento ideale per eliminare ogni avversario politico sulla strada del leader più potente dai tempi di Mao.
Il monaco Shi Yongxin o il maestro Wang Lin, che grazie ai rapporti con la leadership precedente potevano condurre indisturbati i loro business a base di immobili e misticismo, sono stati spazzati via. Perfino l’entourage del presidente non sembra affatto immune al fascino della superstizione. Nel Ventesimo secolo la Cina è riuscita a sbarazzarsi dell’oppio, ma quell’altra droga no, non abbandonerà Pechino così presto.
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