Scuse mai troppe
Roma. Un uomo di ottantuno anni si è dato fuoco davanti all’ambasciata giapponese di Seul. L’anziano, un attivista noto al governo sudcoreano con il cognome Choi, stava partecipando a una delle settimanali manifestazioni che si svolgono di fronte alla sede diplomatica di Tokio contro quello che viene definito il “revisionismo storico” del Giappone. Secondo gli attivisti – appoggiati dal governo di Seul e da quello di Pechino – Tokyo non avrebbe ancora riconosciuto sufficientemente la propria colpevolezza nella controversa questione delle “donne di conforto”, le circa duecentomila donne che durante la Seconda guerra mondiale venivano schiavizzate sessualmente e messe al servizio dell’Esercito imperiale. Mercoledì c’era un migliaio di persone intorno all’ambasciata giapponese, le fiamme sul corpo di Choi sono state subito contenute e l’uomo se l’è cavata con ustioni di terzo grado. Nella cultura asiatica, non è inusuale darsi alle fiamme per protesta. Dieci anni fa un sudcoreano di 54 anni si diede fuoco per richiamare l’attenzione sulla questione delle isole contese con il Giappone.
La protesta non c’è stata per caso. Il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, pronuncerà un discorso storico. Dalle parole che userà per ricordare il settantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale si determineranno i rapporti tra il Giappone, la Corea del sud e la Cina. Per molti storici, Abe non dovrebbe fare altro che seguire le orme di gran parte dei suoi predecessori: il 15 agosto del 1993 l’allora primo ministro Yohei Kono fece la prima dichiarazione ufficiale per confessare la responsabilità “diretta o indiretta” dell’Esercito imperiale nella schiavizzazione sessuale delle donne. Quello che è passato alla storia come il “Kono statement” portò alla creazione della Asian Women’s Fund che aiuta economicamente le donne che hanno subìto violenze durante la guerra. Due anni dopo anche il primo ministro Tomiichi Murayama – in occasione del cinquantesimo anniversario della fine della guerra, il 15 agosto del 1995 – si scusò con i vicini asiatici per le “sofferenze causate dal Giappone”. Kono e Murayama hanno più volte detto che Abe non può smentire politicamente le loro scuse formali. Dieci anni fa, sempre nelle celebrazioni del 15 agosto, perfino il conservatore – nonché mentore politico di Shinzo Abe – Junichiro Koizumi espresse le sue scuse formali a Cina e Corea. E l’ex primo ministro Yukio Hatoyama (democratico, famoso soprattutto per dichiarazioni e camicie eccentriche) è andato per la prima volta a Seul a visitare il museo del carcere di Seodaemun, dove furono imprigionati dall’esercito imperiale giapponese i coreani dissidenti. Hatoyama si è inginocchiato davanti al memoriale per scusarsi ed esprimere profondo rimorso.
[**Video_box_2**]Da che parte della storia si collochi Shinzo Abe non è difficile intuirlo. Sin dalla sua (seconda) elezione nel dicembre del 2012, il primo ministro ha spesso rivendicato il passato imperialista giapponese. Il punto di vista di Abe – e di gran parte dei conservatori giapponesi – muove dall’assunto che il Giappone abbia già pagato a caro prezzo le sue colpe belliche, e che ora sia arrivato il momento di non dover più vergognarsi di quel passato. Un sentimento che fa leva sulla gran parte dei reduci di guerra giapponesi, per esempio, che in un paese vecchio come quello nipponico sono una fetta di elettorato importante. Le sue visite al controverso santuario Yasukuni (dove sono ospitati anche alcuni criminali di guerra) sono state visite di preghiera, ma hanno provocato le reazioni accese di Cina e Corea.
Per quanto riguarda il discorso, Abe ha già concretizzato l’ennesima provocazione: lo pronuncerà un giorno prima, e non il tradizionale 15 agosto, un gesto che ha fatto storcere il naso a molti. Impossibile prevedere quello che dirà (sulla stampa asiatica è uscito tutto e il contrario di tutto, “riflessioni personali”, una “dichiarazione storica”, “una conferma delle scuse formali passate”). C’è un’unica cosa certa: i fantasmi della Seconda guerra mondiale continuano a determinare i rapporti geopolitici in Asia.