La teologia dello stupro di massa
Roma. Nella seconda metà di luglio la giornalista del New York Times Rukmini Callimachi è andata in Iraq e Siria per scrivere un’inchiesta sulla tratta delle schiave creata dallo Stato islamico. Il New York Times l’ha pubblicata ieri e ricorda le corrispondenze storiche scritte durante la Seconda guerra mondiale quando si cominciò a ricostruire l’organizzazione dei campi di concentramento e si ebbe una comprensione più chiara della burocrazia spietata ad essi collegata – a dispetto del fatto che il tema schiavitù yezida è stato già trattato, per esempio in due report di Amnesty International e di Human Rights Watch. Lo Stato islamico ha trasformato la compravendita e lo stupro di massa delle donne catturate in un sistema metodico, permanente e pienamente legittimo dal punto di vista religioso. Anzi, la corrispondenza si apre proprio così: con una bambina di dodici anni che racconta a Callimachi come il suo padrone, un combattente dello stato islamico, si prostrava in preghiera prima di violentarla, e le spiegava che è il Corano stesso a conferirgli questo diritto (un’interpretazione su cui Callimachi fa un approfondimento più avanti nella sua corrispondenza). La bambina che parla ha una vita così sottile che “le mani di un adulto bastano a circondarla” ed è assieme alla famiglia nella tenda di un campo profughi, è riuscita a fuggire dopo quindici mesi di prigionia. Un’altra ragazzina quindicenne ripete a Callimachi la stessa spiegazione che le era impartita prima di ogni violenza: “Dicevo: quello che mi fai è sbagliato e non ti porta più vicino a Dio. Lui diceva che è invece halal (permesso dalla religione, ndr) e che anzi era un atto di devozione prescritto dalla scritture, una ibadah, che porta più vicino a Dio”. I nomi delle donne e delle ragazzine sono tenuti segreti, citati soltanto con l’iniziale.
Quando lo Stato islamico nell’estate 2014 ha cominciato la sua campagna di espansione nell’area montuosa del Sinjar, in Iraq ma vicino al confine siriano, sembrava una avanzata militare come le altre precedenti. In realtà l’obbiettivo era la minoranza religiosa yezida, che secondo i teologi dello Stato islamico non gode dello stesso regime di sottomissione e di possibile protezione in cambio di una tassa di cui godono invece i cristiani e gli ebrei – che secondo l’islam sono anch’essi popoli del Libro, ovvero monoteisti che seguono la rivelazione arrivata da un Dio unico. Gli yezidi secondo lo Stato islamico sono invece adoratori del diavolo, hanno forma umana ma non hanno dignità umana. Il gruppo estremista è deliberatamente entrato con le armi nella loro area per compiere una razzia, catturare le donne e i bambini e uccidere gli uomini. Quando arrivavano separavano le donne dagli uomini, facevano togliere le magliette ai ragazzini e alzare le braccia – raccontano le donne, uniche testimoni delle stragi – se vedevano peli sotto le ascelle li mandavano assieme agli uomini e quindi verso la morte, altrimenti li caricavano con noi, prima sui pianali dei pickup e poi su autobus con tende pesanti che coprivano i lati, per non esporre le donne alla vista degli uomini all’esterno. Una donna racconta di essere scappata con altre due a bordo di una Opel, ma poi il motore s’è surriscaldato, si sono dovute fermare a lato della strada e sono state raggiunte. Secondo le cifre più aggiornate, i baghdadisti hanno catturato almeno cinquemila donne e 3.144 sono ancora nelle loro mani.
La possibilità di conquistare schiave è diventato uno strumento di reclutamento dello Stato islamico, spiega Callimachi, perché alcuni combattenti – non tutti – vengono da società arabe chiuse e profondamente conservatrici, dove i contatti tra uomini e donne sono difficili e regolati. Una volta portate via, le ragazzine e le donne sono state smistate tra alcuni centri di detenzione e raccolta – uno nella ex prigione di Badoush, vicino Mosul, che faceva parte della zona di operazioni del capo, Abu Bakr al Baghdadi, già nel 2008. In questi centri le prigioniere erano identificate, schedate e fotografate per essere inserite in un archvio di immagini a uso dei possibili acquirenti, a tutti gli effetti un catalogo. Uno yezida che s’è finto acquirente per poter accedere al catalogo via internet e così rintracciare le rapite racconta di una raccolta di foto scattate nello stesso format, la yezida su un divano, con il titolo di “sabaya”, schiava, e un numero. Le donne sopravvissute raccontano che quella parola araba, sabaya, nello Stato islamico era sempre anteposta al loro nome, durante tutto il tempo trascorso in prigionia. L’unica esenzione per la violenza è quella concessa, secondo le regole, alle donne in gravidanza, e per questo dopo l’acquisto è necessario che il compratore aspetti fino al primo ciclo mestruale per essere sicuro. Non c’è invece un limite di età per le ragazzine, la regola dello stupro sistematico dice che basta che siano “fisicamente adatte al rapporto”.
[**Video_box_2**]In questo sistema di schiavitù organizzata, le donne catturate sono trattate come beni comprabili, scambiabili e trasferibili a piacere, come fossero cose. Possono anche essere lasciate in eredità. Possono anche essere liberate, e secondo lo Stato islamico la liberazione di una donna schiava è un gesto di generosità. Una donna yezida racconta che un giorno il suo padrone, un libico, le si è avvicinato con una tessera laminata: lui partiva volontario per un attentato suicida e quindi le consegnava l’attestato di liberazione, che le consentiva di non essere ricatturata.
Callimachi ha intervistato due esperti di islam, per capire se le scritture autorizzano davvero la schiavitù e lo stupro. Kecia Ali, un professore di Boston autore di un libro sull’argomento, dice che no, non è un’istituzione religiosa, ma soltanto una cosa contemporanea al tempo del Corano. Cole Bunzel, un ricercatore in teologia islamica a Princeton, sostiene invece il contrario: “Il Corano legittima la schiavitù, ed è per questo che lo Stato islamico lo ha riportato in auge”.