Scioli, Macri e Massa. Che faccia ha l'Argentina del dopo Kirchner
Daniel Osvaldo Scioli, 58 anni, governatore della Provincia di Buenos Aires, ex vicepresidente di Cristina Kirchner, ex ministro dello Sport e del Turismo di Eduardo Duhalde Mauricio Macri, 56 anni, ex-capo di governo della Città di Buenos Aires. Sergio Tomás Massa, 43 anni, deputato per la Provincia di Buenos Aires, ex capo di Gabinetto di Cristina Kirchner, ex Intendente del municipio di Tigre. Dai cognomi, si capisce chiaramente che sono tutti di origine italiana i tre contendenti che sono rimasti in corsa per succedere a Cristina Kirchner alla presidenza della Repubblica argentina, dopo le primarie del 9 agosto. Ma le affinità sono anche altre.
Tutti e tre, in particolare, vengono da famiglie di imprenditori. Il nonno di Scioli era proprietario di una ditta di materiali elettrici da cui il padre aveva sviluppato Casa Scioli, una delle più popolari catene di rivendita di elettrodomestici del paese. A sua volta, il padre di Macri, arrivato dall’Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale come un povero emigrante, è diventato uno degli uomini più ricchi dell’Argentina alla testa di una holding i cui interessi spaziano dalle costruzioni alle auto passando per le poste, le comunicazioni, i servizi, le miniere. Quanto a Massa, suo padre non aveva la stessa notorietà, ma era comunque un facoltoso costruttore. In comune a tutti e tre i candidati è anche il rapporto con il mondo dello sport. Scioli, da atleta, è stato otto volte campione mondiale di motonautica, anche dopo l’incidente dell’elica che nel 1989 gli mozzò di netto un braccio. Macri tra 1995 e 2008 è stato presidente del Boca Juniors, la squadra di calcio più popolare dell’Argentina. I 17 titoli che ha vinto ne fanno il presidente di maggior successo di tutta la storia del club, e anche per questo quando decise di scendere in campo fu comparato a un “Berlusconi argentino”. E anche nel curriculum di Massa c’è la presidenza della squadra del Tigre.
Da giovane presidente di un movimento giovanile liberal-conservatore, Massa passò al peronismo nell’era del liberista Menem. Poi è stato capo di gabinetto della Kirchner, per divenire infine il punto di riferimento dei peronisti anti-Kirchner. Anche Scioli è stato menemista prima era il vicepresidente di Néstor Kirchmner, ora è il suo erede ufficiale. Macri invece quando ha deciso di scendere in campo ha fondato un suo partito liberal-conservatore, e in queste elezioni ha raggiunto un’alleanza sia con l’Unione civica radicale sia con il partito dell’ex-radicale Elisa Carrió. Punto di riferimento dell’anti-peronismo di centrodestra e di centrosinistra, sa però che per diventare presidente dell’Argentina potrebbe non bastare. Nella sua campagna elettorale ha detto di aver “appreso dal peronismo il valore della giustizia sociale e dell’eguaglianza di opportunità” e ha promesso che non toccherà le tre nazionalizzazioni più contestate dell’era Kirchner, quelle della società petrolifera Ypf, delle Aerolíneas Argentinas e del sistema pensionistico.
Il sistema elettorale argentino ha due particolarità. Primo: tre mesi prima del voto si tengono le primarie a cui tutti i cittadini devono votare obbligatoriamente. Secondo: si vota col ballottaggio, ma per essere eletti al primo turno del 25 ottobre basta avere il 40 per cento e 10 punti di distacco sul secondo. Il Fronte per la vittoria, di cui Scioli era l’unico candidato, si è fermato al 38,41 per cento, contro il 30,7 per cento del fronte Cambiemos di Macri e il 20,63 di Uniti per una nuova alternativa di Sergio Massa. Ma se si tolgono i voti di altri pre-candidati, Macri da solo si ferma al 24,79, e Massa al 17,1.
[**Video_box_2**]Il giorno dopo le primarie la Borsa di Buenos Aires è salita del 6 per cento. Malgrado scandali, inflazione e recessione, Cristina Kirchner è ancora uno dei capi di stato più popolari della regione: ma ciò grazie a una politica di sussidi che difficilmente potrà essere mantenuta ulteriormente. Poiché Scioli, da governatore, ha autorizzato aumenti delle tariffe elettriche, si dà per scontato che in caso di vittoria ridurrebbe quei sussidi energetici che costano il 4 per cento del pil, e anche quelle imposte all’export che gli agrari vedono come fumo negli occhi. Macri farebbe le stesse cose: ma in modo più radicale e più rapido.