Il vaniloquio libico
Al centro del vaniloquio libico sta l’illusione dell’autodeterminazione nazionale. In aggiunta, nutre questo vaniloquio il pregiudizio contro l’uso della forza e lo state building politico-militare. L’idea di Stati Uniti, Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia e Spagna è che sia realistico fare appello alle fazioni impegnate nel massacro reciproco e nella guerra civile tra tribù e comunità politiche antagoniste, con le complicazioni di sostanza religiosa che sappiamo, affinché i libici di buona volontà si uniscano e si diano, contro l’anarchia terroristica e la deriva jihadista che decapita e crocifigge a Sirte, un potere legittimo e unitario, magari con l’aiuto discreto (e sotto copertura Onu) dei paesi firmatari, capace di realizzare pacificazione, ripresa della produzione petrolifera (al 30 per cento del suo potenziale) e ricostruzione della nazione. Vaste programme.
Martedì si tiene al Cairo un vertice della Lega araba, destinatario di una richiesta di aiuto da parte del governo internazionalmente riconosciuto di Tobruk. L’Egitto di Al Sisi è l’unico paese che fin qui abbia cercato di agire in solitario al di fuori dei confini del vaniloquio, con il bombardamento delle postazioni dello Stato Islamico, ma sulla possibilità che in sede di Lega araba si trovi una qualsiasi soluzione operativa e vincente lo scetticismo è quasi unanime. Prosegue la missione diplomatica di un alto funzionario delle Nazioni Unite, Bernardino Leon, per escogitare una soluzione politica in grado di ribaltare lo scenario di guerra e di disfacimento dello stato libico, e anche qui lo scetticismo, nonostante l’accordo siglato in Marocco a luglio da alcune delle fazioni impegnate nella guerra civile e tribale, è molto alto. Con argomenti razionali e sensati, Sergio Romano ieri proponeva che l’Italia assuma un ruolo di guida per una presenza militare di peace keeping o enforcing in Libia, sotto copertura Onu e con l’avallo americano ed europeo. Sarebbe una buona cosa, forse anche doverosa, ma ce ne sono le condizioni politiche? Malgrado la pazienza, la serietà, il passo prudente del nostro ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, l’impressione è che il vuoto libico di potere, di legittimazione e di autorità, come sempre accompagnato da un drastico abbassamento degli standard umanitari convenzionali, non sia colmabile con un intreccio di diplomazia e la prospettiva di una blanda deterrenza che incuta rispetto e magari anche timore ai miliziani oggi padroni del paese.
[**Video_box_2**]La combinazione della filosofia di Obama, leading from behind, e del fanatismo pro domo sua di Sarkozy, produsse tra il 2011 e il 2012, con sette lunghi mesi di bombardamenti e di blocco navale, un disastro colossale di cui stiamo subendo oggi tutte le conseguenze. Al confronto la guerra in Iraq è stata coronata da pieno successo. Tutto cominciò con la bugia: la bugia sui diecimila massacrati da Gheddafi, propalata da Al Jazeera e rilanciata dal sistema tribale dei media occidentali; la bugia sulla primavera araba, che Gheddafi al potere avrebbe conculcato con una spietata repressione; la bugia su Benghazi oggetto di un assedio, vigilia di strage; e infine la bugia ideologica più grande, quella secondo cui l’occidente e l’Europa possono spingere forze sane all’autodeterminazione nazionale senza un duro, costoso e drammatico lavoro di state building. E poi dicono che la guerra di Bush, Cheney e Rumsfeld è stata generata dalla menzogna. Il caos libico, i cui costi anche umani sono assai superiori a quelli della dittatura di Gheddafi, che era arrivata a uno stadio di prepensionamento, può essere disinnescato soltanto da una occupazione militare del paese guidata da una willing coalition e da apparati di guerra consistenti, con l’uso di truppe di terra, e da un surge, da un incremento progressivo della capacità di stroncare gli insurgents e i jihadisti. Tutto il resto è solo un vaniloquente intrico di furberie e di buone intenzioni che non promettono alcuna soluzione.