Hillary Clinton (foto LaPresse)

L'università resiste alla solfa della diseguaglianza (Hillary prenda nota)

Distruggere Il totem pikettiano della sperequazione. L'ambizioso piano da 350 miliardi di dollari della Clinton per riformare il sistema universitario è un inno all’uguaglianza contro il divorzio percepito fra l’educazione d’élite accessibile soltanto ai ricchi, che grazie alle loro lauree altisonanti diventeranno ancora più ricchi.

New York. Per la vasta setta degli adoratori del pikettismo, le diseguaglianze economiche sono un destino. Non c’è rapporto economico nel sistema che sfugga alla legge immutabile della crescita della sperequazione, in tutti gli ambiti i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri più poveri, e così sarà per sempre. Non esiste altra chiave interpretativa per inquadrare la situazione attuale e leggere gli eventi che verranno.

 

Quando anche Hillary Clinton, che in questa rappresentazione certo non figura nella fazione degli oppressi e dei diseredati, si mette a inseguire le parole d’ordine del candidato socialista Bernie Sanders, significa che gli assunti sulla diseguaglianza che cresce senza posa hanno conquistato definitivamente il cuore dell’establishment. Il suo ambizioso piano da 350 miliardi di dollari per riformare il sistema universitario è un inno all’uguaglianza contro il divorzio percepito fra l’educazione d’élite accessibile soltanto ai ricchi, che grazie alle loro lauree altisonanti diventeranno ancora più ricchi. La vulgata dice che le diseguaglianze sono patologie del capitale che infettano innanzitutto il sistema educativo, che opera come un sistema di profitto quando dovrebbe invece essere invece il grande ascensore della mobilità sociale. Ci sono lupi di Wall Street anche alla guida del settore che dovrebbe dare il potere della conoscenza a chi potere non ha. Moody’s sostiene che per quanto riguarda l’educazione assistiamo a una dickensiana “storia di due città universitarie” in cui le istituzioni più ricche diventano sempre più ricche, incamerando finanziamenti e donazioni sempre più consistenti da parte dell’1 per cento impegnato ad accrescere il proprio potere.

 

Il gap fra i bilanci dei college americani “è destinato ad allargarsi ulteriormente in futuro”, dice uno studio pubblicato qualche mese fa. Per la rivista Inside Higher Ed non è che “il culmine di un trend consolidato” e il giornalista Lawrence Biemiller conferma la percezione diffusa: “Per i college più ricchi la battaglia è finita, e loro l’hanno vinta”. Un recente paper ben documentato di Yan Lau e Harvey Rosen, economisti rispettivamente al Reed College e a Princeton, getta senza troppi giri di parole nel cestino l’idea della diseguaglianza crescente nei college, implicitamente dimostrando che il gioco di attribuire lo stesso peccato originale a qualunque fenomeno ha le gambe corte.

 

Harvard e Yale hanno più risorse e attraggono più finanziamenti e donazioni filantropiche di uno sperduto college del Montana, per afferrare questo concetto non c’è bisogno di studi accademici, ma non è vero, sostengono Lau e Rosen, che il fossato fra università ricche e povere si sta allargando. Non c’è alcuna emergenza in questo senso, come lascia intendere la notevole battaglia di Hillary contro le università che hanno costruito e legittimato la classe dirigente di cui lei è uno dei massimi rappresentanti. “Le università stanno davvero diventando più disuguali? – si chiedono i ricercatori, e la domanda dà il titolo al paper – La nostra conclusione è che esiste una considerevole differenza fra le varie istituzioni, ma le preoccupazioni intorno a un’inesorabile crescita della diseguaglianza sono esagerate. Se guardiamo alle entrate, alle donazioni e alle spese, la diseguaglianza è rimasta stabile negli ultimi anni”.

 

Nel periodo fra il 2002 e il 2010, quello preso in esame dai ricercatori americani nello studio pubblicato pochi giorni fa, non si è verificata quella forma di inesorabile esproprio dei beni dei più deboli che è alla base dell’argomento dei fanatici della sperequazione, e dire che il panorama educativo americano si presta meravigliosamente alla trama della “tale of two cities”: in America ci sono oltre 2.000 università, ma i nomi che competono a livello globale sono sempre quelli dell’Ivy League, lega universitaria che agli occhi di certi osservatori non è che il Bilderberg dell’istruzione, con le sue minacciose mire di dominio e la sua invincibile forza oppressiva.

 

[**Video_box_2**]Dopo un’analisi dettagliata dei finanziamenti e dell’accesso al sistema, i ricercatori concludono: “Non abbiamo trovato prove di una sostanziale crescita del livello di diseguaglianza , e questo è vero in generale e anche all’interno delle diverse classi a cui appartengono le istituzioni”, perché sarebbe piuttosto bizzarro pensare di mettere nella stessa categoria eccellenze globali e college di provincia. Sulla lotta allo status quo universitario come motore dei disastri sociali ed economici dell’America impoverita sono in molti a fare una scommessa politica.

 

E’ una battaglia di andamento populista che trova terreno fertile in una mentalità che propugna l’oppressione del ricco sul povero come definitiva arché, scaturigine di ogni sovrastruttura, con “l’effetto Matteo” – come chiamano i sociologi la tendenza dei ricchi a essere sempre più ricchi e dei poveri a perdere anche il poco che hanno – a dominare qualunque considerazione economica. Il caso delle università mostra il baco nella teoria della diseguaglianza universale e ineluttabile.

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