Gli schiavisti immaginari del pol. corr.
New York. Il professore di Yale Stephen Davis non vuole essere più chiamato “master”. In quanto responsabile di una delle dodici residenze dell’Università di New Haven, il titolo gli spetta di diritto, eredità di una tradizione che risale alle grandi università britanniche, ma la parola “master” evoca anche un’altra tradizione, fatta di schiavitù e di segregazione. “Master”, signore, era il modo in cui gli schiavi erano costretti a chiamare i loro padroni nel passato oscuro dell’America, e benché nel campus non siano state scoperte di recente plantation né compravendite di esseri umani, Davis vuole eliminare dal vocabolario accademico una parola troppo carica di significati sinistri.
Ai suoi studenti ha scritto: “Penso che non debba esistere nessun contesto nella nostra società o nella nostra Università in cui uno studente, un professore, un membro dello staff o qualunque persona afroamericana sia costretta a riferirsi a qualcun altro con ‘master’”. Fra gli altri difetti, il termine ha anche quello di esprimere una realtà eminentemente maschile, sopruso patriarcale oltre che razziale, e dunque Davis declina il suo rifiuto linguistico anche in senso femminista: “Nessun titolo di genere maschile dovrebbe essere accettato come segno di autorità”. Alcuni studenti, dice il professore, “hanno sentito il bisogno di andarsene dal campus, per evitare un sistema in cui il titolo di ‘master’ è valorizzato”. Difficile immaginare che il contesto universitario del 2015 possa evocare, nei fatti, un parallelo credibile con l’epopea tragica della schiavitù, ma la legge del politicamente corretto è inflessibile, i suoi giudici non ammettono attenuanti né giustificazioni legate al contesto storico in cui certe parole vengono pronunciate. L’intenzione non conta, contano soltanto i lemmi. Se nemmeno le opere d’arte vengono risparmiate – in certe edizioni di Huckleberry Finn la parola “negro” è stata espunta – figurarsi se un regno della correttezza come quello di Yale può accettare di essere il portatore (anche sano) del germe razzista.
[**Video_box_2**]Il campus si è mobilitato contro minacce molto meno perfide. Negli anni Novanta il corso del grecista Donald Kagan sulla civiltà occidentale è stato smantellato a suon di proteste, e qualche anno fa lo stesso professore ha dichiarato che la guerra del politicamente corretto iniziata allora è finita: “Per combattere ci vogliono due parti, e oggi ne è rimasta soltanto una”. Ogni corso, ogni protocollo, ogni libro, ogni manifestazione, ogni abitudine sociale e tradizionale viene scandagliata alla ricerca del potenziale offensivo nascosto per qualche minoranza in particolare o per la sensibilità dominante in generale. Il “master” delle residenze universitarie difficilmente finirà per imporre punizioni corporali agli studenti, ma la parola è un intollerabile promemoria di un passato che non è poi così passato. Oggi tocca a “master”, domani sarà il turno di una nuova parola. Oppure si tornerà a calcare ancora ossessivamente sullo stesso concetto, come succede nella correttissima Olanda, dove ogni anno si ripresenta la polemica su “Black Pete”, l’aiutante nero che a dicembre accompagna san Nicola nella distribuzione dei regali ai bambini. Il servo nero di un santo bianco: a Yale l’avrebbero già cacciato, ma per emendare la peccaminosa tradizione è intervenuto l’immancabile Onu. La commissione dei diritti umani a Ginevra ha attaccato “Black Pete”, figura che “dà una visione stereotipata del popolo africano, che vengono presentati come cittadini di serie B”, e ha chiesto formalmente la sua rimozione dalla parata del 5 dicembre.