Vedersi morire
La soggettiva traballante è quella che nei vecchi manuali di cinema chiamavano macchina a mano. L’immagine mossa che avanza, si avvicina. La terrazza, la nuca del cameraman, la giornalista con la gonna rossa, la donna intervistata. Nell’inquadratura spunta la pistola, in soggettiva. Spara. La Soggettiva Assoluta. L’Occhio Assoluto, onnipotente. Tutto quello che c’è è l’occhio del regista-protagonista-assassino. La sua esperienza mentre uccide. L’esperienza di quelli che vengono uccisi. L’occhio che uccide (Peeping Tom, perché “peeping” è l’azione del guardone) è un film di cinquantacinque anni fa di Michael Powell. La visione-storia, che allora venne detta “al limite” (ma i limiti passano in fretta), di un operatore cinematografico-guardone-psicopatico che s’inventa un modo per vedere-uccidere: un coltello sul treppiede della cinepresa, in modo da riprendere gli occhi di terrore delle ragazze che ammazza, mentre muoiono. C’è un altro filmato, quello che stava ieri sul sito del Corriere. Lì c’è una panoramica dal terrazzo, in soggettiva, da destra verso sinistra. Le vittime, gli spari. Poi nel video “l’occhio” diventa quello della telecamera del cameraman ucciso, lo strumento meccanico cade a terra, continua a riprendere, c’è il pavimento di sbieco, di legno. L’insensata visione elettronica per un occhio umano che oramai non vede più. Da terra, di sbieco. Come l’ultima inquadratura dello Stato delle cose di Wenders. Solo che quella è in bianco e nero.
Non si scrivono queste cose, queste cazzate da cinefili finto-colte, alla otto e mezza di un giorno come questo, per dimostrare di avere una “cultura”, cioè di possedere un punto di vista adeguato a ingabbiarci dentro l’indicibile. O la pura follia. E tenerli a distanza. O almeno, spero di non starle scrivendo per questo.
A Moneta, in Virginia, un uomo che si chiamava (poi si è ammazzato anche lui) Vester Lee Flanagan, 41 anni, ha ucciso la collega reporter televisiva Alison Parker, 24 anni, e l’operatore Adam Ward, 27 anni, mentre erano in onda per un’intervista, e mentre lui stesso li filmava. Poi, prima di uccidersi, ha postato il suo compitino su Facebook e Twitter. C’è qualche cultura, o razionalità, in cui ingabbiare una cosa così? Non si scrivono cazzate da cinefili per ingabbiare la follia. Ma per provare a dire che siamo troppo abituati alle immagini. Siamo purtroppo abituati agli sgozzamenti con bella regia dell’Is. Ai pazzi che filmano la strage e la mettono su Fb. O che registrano prima il loro proclama di morte perché qualcuno “sappia” di loro, del loro mondo bacato, subito dopo. Noi tutte queste cose le abbiamo viste, e un tempo ci parevano forse bel cinema. Ma ora ci sentiamo corazzati da altro, dai nostri stessi occhi non più vergini delle “morti in diretta”. Le guardiamo, ma non è darci una ragione del mondo, non è cultura. E’ pornografia. La pornografia della morte ce l’abbiamo negli occhi, è la nostra soggettiva quotidiana. E pensiamo di essere pronti a tutto. Il salto in avanti di Vester Lee Flanagan, il suo omicidio filmato in soggettiva e messo online è solo un salto in avanti di quello che possiamo vedere. O, forse, è qualcosa che dice altro. Ma non so in quale film.