Un gran dibattito americano
Addio confini? Calma. Appunti ragionati per non (s)governare l'immigrazione
Roma. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ieri, ha comunicato che da inizio anno 300.000 persone – richiedenti asilo e immigrati economici – hanno attraversato il Mar Mediterraneo per raggiungere l’Europa. Intanto da settimane è tornato a rafforzarsi un altro flusso in ingresso che segue la rotta balcanica. L’Unione europea, passando di vertice in vertice, e rimandando da mesi ogni operazione di stabilizzazione di stati semi-falliti ai suoi confini (come la Libia), rimane lontana dall’elaborazione di politiche comuni ed efficaci per l’emergenza. Che poi “emergenza” è solo fino a un certo punto, visto che il fenomeno migratorio da anni è diventato più imponente, al di là dell’acutizzarsi di singole crisi. In questa fase sembra tornata a svettare la leadership di Angela Merkel, la cancelliera tedesca cui ieri si è appellato addirittura il comico italiano Beppe Grillo, chiedendo dal suo blog una nuova versione del “Piano Marshall”, da ribattezzare appunto “Piano Merkel”, un mix di investimenti e stop di produzione delle armi “da destinare all’Africa”. D’altronde la cancelliera, da quando in settimana ha deciso di sospendere l’applicazione dell’accordo di Dublino per i siriani in fuga dalla guerra civile, ha riconquistato all’improvviso popolarità in quell’establishment intellettuale e giornalistico che fino a due settimane fa l’accusava nemmeno troppo velatamente di essere un’affamatrice di popoli, a partire da quello greco. Destino mediatico curioso, quello di Merkel, che in realtà sta tessendo una tela diplomatica per gestire il fenomeno: da una parte l’apertura ai rifugiati siriani, dall’altra la consapevolezza che quasi la metà delle 196 mila richieste d’asilo depositate finora in Germania proviene dalla ex Yugoslavia; ecco spiegate le pressioni di Berlino per qualificare come “sicuri” l’Albania, il Montenegro, il Kosovo e interrompere così nuove richieste d’asilo da tali paesi. In Europa, insomma, s’avanza a tentoni, specie nel dibattito pubblico sul tema.
Di tutt’altra stoffa il dibattito americano, dove demagogia e filantropismo ciechi non sempre la fanno da padroni. C’è l’esempio dei fautori degli “open borders” di cui abbiamo scritto ieri su queste colonne: economisti e politologi, di scuola libertaria e liberista, i quali sostengono che l’abolizione delle frontiere sia “il modo efficiente, egalitario, libertario e utilitarista per raddoppiare il prodotto interno lordo del pianeta” (Bryan Caplan, economista della George Mason University in cui insegnò il Nobel James Buchanan). In questo filone rientra un florilegio di studi accademici e commenti più accessibili che ruotano tutti attorno a un concetto: confini aperti equivarrebbero a più forza lavoro a disposizione nei paesi ricchi, più consumatori da soddisfare, più imprenditori pronti a farlo, più innovazione che discende dalla capacità delle persone di spostarsi lì dove sono necessarie. Le argomentazioni utilizzate sono accademiche, ma gli scenari che ne discendono chiamano in causa sempre più i policy maker. Non a caso, nell’ultimo numero del Journal of Economic Literature, a intervenire per ragionare sulla tesi dell’apertura totale dei confini è stato George J. Borjas, professore a Harvard, decano di economia dell’immigrazione negli Stati Uniti.
L’obiezione redistributiva e quella politica
A quegli analisti secondo i quali “ci sono migliaia di miliardi di dollari in banconote sui marciapiedi dell’occidente, lasciati lì per terra per colpa dei nostri confini”, Borjas risponde criticamente sollevando due obiezioni. L’obiezione redistributiva (chi si arricchirà di più dal “raddoppio del pil” teorizzato?) e quella politico-istituzionale (i nostri regimi democratico-liberali possono davvero rimanere efficienti come lo sono oggi, a fronte di un afflusso straordinario di immigrati?). Le risposte offerte ai quesiti sono istruttive. E decisamente attuali anche per il confronto europeo.
E’ dal 1984, con una ricerca di Bob Hamilton e John Whalley, che in America si è iniziato a ragionare, numeri alla mano, sull’idea di abbattere i confini del paese per rilanciare l’economia nazionale e alleviare la povertà mondiale. Borjas, di Harvard, elabora un modello semplificato (con formule e grafici, ça va sans dire) per calcolare benefici e danni di un approccio simile. I dati di partenza sono quelli del 2011 della Banca mondiale: 600 milioni di persone lavorano nei paesi ad alto reddito (1,1 miliardi di abitanti) e 2,7 miliardi di persone nei paesi in via di sviluppo (5,9 miliardi di abitanti), per un pil complessivo di 70 mila miliardi di dollari. Se 2,6 miliardi dei lavoratori più poveri (il 95 per cento della forza lavoro locale) si spostassero nei paesi più ricchi, i paesi d’origine perderebbero ricchezza, ma a livello globale avremmo un aumento del pil del 60 per cento, pari a 40 mila miliardi di ricchezza prodotta in più.
Secondo Borjas, lo spostamento globale di lavoratori – che per ipotesi ha costi nulli e avviene in uno scenario di abolizione dei confini – proseguirebbe fino a che i salari nei paesi ricchi e nei paesi poveri raggiungeranno un equilibrio medio. Borjas stima un aumento dei guadagni del 143 per cento per i lavoratori dei paesi poveri, una diminuzione del 40 per cento per i lavoratori dei paesi ricchi, e allo stesso tempo un aumento del 57 per cento dei detentori di capitale nei paesi ricchi. Questi ultimi, infatti, sarebbero in posizione ottimale per avvantaggiarsi del big bang di consumi, imprese e innovazioni. L’esistenza di “gruppi sociali perdenti”, scrive Borjas, consiglierebbe un po’ di cautela nell’utilizzare a ogni piè sospinto “insulti” ed etichette tipo “razzisti e xenofobi”: questo atteggiamento “sottovaluta il fatto che, quali che siano i sentimenti dei lavoratori dei paesi più ricchi, le loro lamentele sono economicamente fondate e non spariranno”.
[**Video_box_2**]Ma la tesi fondamentale dell’economista di Harvard è un’altra. Le curve di domanda e offerta di lavoro dei paesi industrializzati, quelle con cui si calcolano i salari medi che tendono a uniformarsi, sono disegnate a partire da una specifica “funzione di produzione aggregata”. In termini più semplici: chi lavora nei paesi industrializzati ha un salario maggiore, ed è più produttivo dei colleghi dei paesi più poveri, grazie a tutto un insieme di “infrastrutture” che si sono formate e stratificate nel tempo nel mondo occidentale. Dove per “infrastruttura” Borjas intende “non solo il capitale fisico, ma anche il valore delle istituzioni e delle organizzazioni politiche, sociali e culturali che regolano le nostre interazioni”. Per arrivare agli incrementi del pil di cui sopra, “deve valere l’assunto per cui gli immigrati possono spostarsi nei paesi industrializzati senza importare anche le organizzazioni, i modelli sociali o la cultura ‘negativi’ che sono alla radice delle scarse performance economiche dei loro paesi d’origine”. Borjas tenta alcune stime. Riduce per esempio a 8,8 mila miliardi di dollari – da 40 mila miliardi del modello originario – i guadagni dell’abbattimento delle frontiere nel caso di una nuova “infrastruttura” di qualità “media”, a metà tra quella dei paesi ricchi e quella dei paesi poveri. La conclusione, dunque, è la seguente: “I benefici di un’immigrazione senza restrizioni dipendono in larga parte da come l’infrastruttura dei paesi riceventi si adatta all’afflusso di qualche miliardo di persone”. Se finora intere generazioni di cittadini e leader democratici non si sono accorte dei “miliardi di dollari in banconote che restano sui marciapiedi dei paesi occidentali” – come invece amano ripetere i teorici degli “open borders” – qualche motivo ci dovrà pur essere. Affidarsi a degli “ingegneri sociali” dotati di scarsa “umiltà” non è la soluzione ottimale, avverte Borjas.
Cose dai nostri schermi