Cosa succede in Africa dopo la crisi in Cina

Maurizio Stefanini
Perché la "Cinafrica" che stava crescendo economicamente grazie agli investimenti cinesi ora rischia anch'essa di entrare in crisi

Cinafrica” è l’etichetta lanciata nel 2008 da Serge Michel e Michel Beuret, rispettivamente corrispondente di Le Monde e capo del servizio esteri del settimanale svizzero L’Hebdo, in un libro-reportage fatto assieme al fotografo Paolo Woods. E’ il tentativo cinese di imbastire una fitta trama di accordi commerciali e politici del governo cinese con il continente africano per lo sfruttamento del petrolio e di altre materie. In alcuni casi alimentando speranze di riscatto, in altri sostenendo dittatori e politicanti corrotti, più spesso l’una e l’altra cosa allo stesso tempo. Già all’epoca dell’uscita del libro oltre 50.000 cinesi si erano riversati a cercare fortuna in Africa, in una sorta di Far west del XXI secolo. Successivamente, il venir meno di Gheddafi aveva dato l’occasione per sostituirlo nel ruolo di principale finanziatore dell’Unione Africana, fino al punto di pagare integralmente i 200 milioni della nuova sede di Addis Abeba. Ovviamente, questa presenza sempre più massiccia aveva creato alcuni problemi. Diversi cinesi erano stati attaccati – ad esempio – da guerriglieri in Etiopia. Pogrom e sommosse anti-cinesi c’erano state in Algeria, Lesotho, Angola, Congo. Slogan anti-cinesi erano stati agitati in Sudafrica. Soprattutto, una campagna elettorale contro l’invadenza di Pechino era stata vinta nel 2011 nello Zambia da  Michel Sata, che dopo aver accusato i cinesi di trattare come schiavi i lavoratori delle miniere di rame nella prima conferenza stampa da presidente aveva ammonito la Repubblica Popolare a cambiare metodi. Anche se poi, in concreto, era cambiato poco. Impossibile trovare altri acquirenti che potessero sostenere i prezzi del rame con voracità analoga.

 

Ora però qualcosa sta cambiando: il gigante cinese traballa, assieme alla sua Borsa, materie prime e commodities in blocco vedono i prezzi cadere, e con questo è aumentata l’incertezza su un volume di investimenti che era ormai arrivato ai 20 miliardi di dollari.  E l’Africa che ha goduto della crescita cinese ora rischia di andare giù assieme al dragone.

 

Il segnale più significativo arriva dal Sudafrica, partner della Cina non solo come fornitore, ma anche come alleato politico nei Brics. Negli ultimi anni il rand sudafricano, la valuta ufficiale del paese, era l’unica moneta africana a essere utilizzata nel carry trade – quel trucco speculativo che consiste nel prendere a prestito denaro in paesi con tassi di interesse più bassi, per cambiarlo in valuta di paesi con un rendimento degli investimenti maggiore – ma con il crollo della domanda di oro, platino e carbone il rand ha perso l’8 per cento in una sola settimana: le valutazioni vi dipendono però comunque dalla forza dell’economia di un paese e con le difficoltà della Cina i contraccolpi per quella sudafricana sono stati pesanti.

 


Se il Sudafrica è in difficoltà nonostante sia l’unica vera potenza industriale del Continente, gli altri paesi legati commercialmente con la Cina soffrono ancor più lo sboom cinese. L’Etiopia, ad esempio, era l’economia continentale di grandi dimensioni che stava crescendo più rapidamente, proprio perché Pechino l’avevo scelta per delocalizzare produzioni in cui la pur tradizionalmente parca manodopera cinese aveva iniziato a diventare troppo cara. Grazie a salari che erano un quarto di quelli della Repubblica popolare, imposte inferiori e materie prime a portata di mano, i cinesi avevano deciso di superare gli handicap di formazione e infrastrutture investendo nel paese con strade, ferrovie, centrali elettriche e aeroporti: ora però queste opere potrebbero essere abbandonati. Stesso discorso va fatto per Nigeria e Kenya, altri due Paesi a forte crescita. Nel Sud Sudan è a rischio l’oleodotto che dovrebbe permettere al Paese di più recente indipendenza del Continente di esportare la sua pressoché unica ricchezza.

 

[**Video_box_2**]Particolare è il problema dello Zimbabwe, la cui moneta è stata praticamente distrutta dalla terribile inflazione provocata dalla politica di Robert Mugabe, al punto che alla fine ha deciso di rinunciarvi. Dal 2009 vi si utilizzano infatti monete straniere, ma dal 30 giugno la banca centrale ha ripreso a cambiare i dollari dello Zimbabwe ancora in mano a privati, fino al 30 settembre. Al tasso di cambio eccezionalmente favorevole di 5 dollari Usa ogni 175 milioni di miliardi di zimdollars, quando il rapporto vero sarebbe di 250 milioni di miliardi a uno. L’idea era che l’operazione avrebbe dovuto favorire la diffusione dello yuan, dal momento che la Cina assorbe un quarto dei 3,2 miliardi di euro dell’export. A maggio l’ambasciatore della Repubblica Popolare a Harare aveva annunciato che gli investimenti cinesi nello Zimbabwe erano ormai arrivati a 1,3 miliardi di euro, e ad agosto Pechino si era impegnata a finanziare progetti di infrastrutture per 2 miliardi di dollari. Ma, sebbene introdotto dal 2014 nel paniere di nove monete straniere utilizzabili, la gente non si fida, continuando a preferire dollaro Usa, rand e euro. E quel che sta accadendo non è induce a superare questa diffidenza.

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