Gli effetti della scoperta del gas egiziano su Israele. Consigli (e un po' di concorrenza) per il Cairo
Milano. Ieri alla Borsa di Tel Aviv sono crollate le azioni delle compagnie che gestiscono i due maggiori giacimenti di gas israeliano offshore e il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha rimandato il voto parlamentare su un controverso accordo per lo sfruttamento delle riserve. Prima della scoperta annunciata dall’Eni domenica del più grande giacimento di gas nel Mediterraneo orientale al largo delle coste egiziane, Israele deteneva il primato regionale con le riserve offshore Leviathan e Tamar, scoperte nel 2010, con 620 metri cubi di capacità contro gli 850 dell’Egitto. Per Israele si profila un futuro da esportatore che garantirebbe al paese non soltanto un rafforzamento del pil, ma il rinsaldarsi di alleanze geopolitiche regionali con Cipro, Grecia, Giordania, Egitto e Turchia attraverso la firma di accordi energetici.
La stampa israeliana ieri è stata svelta a sottolineare come la prima vittima della nuova scoperta egiziana sia la prospettiva di accordi energetici con il Cairo, come ha scritto su Haaretz Avi Bar-Eli. Lettere d’intenti sono già state siglate nei mesi passati tra le compagnie israeliane e un’azienda britannica e una spagnola – British Gas e Union Fenosa – per la vendita di gas israeliano all’Egitto. Negli ultimi anni, il fabbisogno energetico egiziano è cresciuto, gonfiando il malcontento della popolazione spesso soggetta a tagli di corrente nelle grandi città. La soluzione Leviathan avrebbe legato ancora di più il Cairo ai vicini israeliani, con i quali Israele già condivide obiettivi di sicurezza nazionale a Gaza e nel Sinai.
[**Video_box_2**]Secondo alcune analisi, il complicarsi dell’opzione egiziana per Israele fa risorgere la possibilità di una pista turca. Le relazioni tra Israele e Turchia sono fredde dal 2010, quando in un raid dell’esercito israeliano a bordo della nave turca Mavi Marmara in rotta per la Striscia di Gaza sotto embargo morirono nove persone. Ancora a febbraio il ministro degli Esteri turco non ha partecipato alla conferenza sulla sicurezza a Monaco per evitare incontri con l’omologo israeliano – ricorda la Brookings Institution – ma secondo le statistiche del governo israeliano nel 2014 Turchia e Israele hanno avuto un volume di scambi commerciali pari a 5,44 miliardi di dollari: la cifra prova che le tensioni diplomatiche non sono state seguite dal gelo economico. Il giornale finanziario israeliano Globes ha intervistato l’esperto turco di energia Nusret Comert che ha ricordato come in Turchia il consumo energetico sia raddoppiato nell’ultimo decennio e come Israele dovrebbe quindi guardare ad Ankara. La Turchia è interessata alla diversificazione delle fonti: le importazioni garantite dal nord dell’Iraq sono state bloccate dalla presenza dello Stato islamico, il flusso russo e quello iraniano sono instabili, e il completamento del gasdotto Trans-Anatolian è stato rimandato fino al 2020, mentre Israele ha in progetto esportazioni già per il 2018 e potrebbe vendere ai turchi da 8 a 10 miliardi di metri cubi l’anno. Emmanuel Navon, dell’Università di Tel Aviv, ha scritto che finora un accordo tra Turchia e Israele è stato bloccato da questioni politiche: il premier Recep Tayyip Erdogan – che starebbe mediando con il Qatar una tregua tra i palestinesi di Hamas a Gaza e Israele – non sarebbe disposto a siglare contratti milionari senza che il governo di Netanyahu ceda sull’alleggerimento dell’embargo sulla Striscia. Solo dopo le elezioni turche il primo di novembre potrebbero iniziare a formarsi i nuovi equilibri energetici mediterranei.