I resti umani dei media
Dopo aver giustamente pianto lacrime amare e aver più cinicamente paragonato Aylan, tre anni di vita annegato sulle coste turche, al “bambino con le braccia alzate nel ghetto di Varsavia”, il direttore della Stampa, Mario Calabresi, ha pubblicato l’immagine-simbolo della morte per acqua dei migranti del Mediterraneo. “Devo proprio farvelo vedere?”, si chiedeva su Repubblica Michele Smargiassi con foto annessa. “Un bambino scuote il mondo”, chiosava invece Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera, senza tralasciare l’immagine. La stampa anglosassone, a cominciare dal New York Times, intanto rendeva conto delle discussioni nelle redazioni di mezzo mondo sulla pubblicazione di questa fotografia. Unanime decisione: “graphic”, ma da pubblicare per narrare la “tragedia”.
Una fotografia che illumina anche un’altra tragedia: il doppio standard dell’umanitarismo e di un certo giornalismo infarcito di solidarismo ideologico che prorompe in singhiozzi, ma sempre e regolarmente a singhiozzo. Cesellata, ben scritta e impaginata, l’immagine deve sempre legittimare il senso di colpa occidentale e l’uso politico-mediatico che se ne intende fare. Poi ci sono le immagini che non si devono vedere. Le immagini che molti dichiarano di non volere vedere. Le immagini che si va a cercare su Internet perché i giornali si rifiutano di pubblicarle, foto e video privi di qualunque mistero, di esseri umani umiliati e indotti al pianto e al grido con spietata ferocia, la stessa di Aylan.
I resti sono umani, i media no.
Nessuno ha mai visto i corpi lanciati nel vuoto dalle Twin Towers, scomparsi dagli schermi televisivi e dalle pagine dei giornali. Il Washington Post ieri spiegava la legittimità di diffondere la foto di Aylan. Ma è lo stesso giornale che di recente ha scritto: “New York tabloids went too far by printing gruesome images of James Foley’s execution”. La critica è ai media, pochissimi e non blasonati, che hanno diffuso l’immagine del primo ostaggio occidentale sgozzato dall’Isis. In Italia nessuno lo ha visto, neppure pixellato. L’executive di Twitter, Dick Costolo, ha addirittura sospeso gli account che mostravano le fotografie di Foley, “graphic” anche queste, e di altre decapitazioni islamiste. Va da se che Twitter da ieri è inondato di immagini di Aylan. E dov’erano nei giorni scorsi i news desks, gli editorialisti e i direttori quando si trattava di far vedere Khaled al Asaad, l’archeologo decapitato e appeso a testa in giù a Palmira? Nessuno l’ha pubblicata. Quando il Foglio nel 2004 diffuse le foto di Nick Berg decollato in Iraq, l’Ordine dei Giornalisti ci diffidò, mentre Sergio Romano sul Corriere della Sera sosteneva che pubblicare quell’immagine voleva dire che “la barbarie dei terroristi assolve quella dei soldati americani”. Gli occhi dell’occidente dovevano essere tutti per quattro americani sghignazzanti che tormentavano i detenuti ad Abu Ghraib.
I tinelli d’Italia intanto vedevano ogni bambino iracheno ferito e ucciso nei bombardamenti americani, mentre scompariva la testa mozzata di Daniel Pearl, la rivoltellata a Fabrizio Quattrocchi e i resti dei soldati israeliani mostrati come trofeo da Hamas. E quando abbiamo visto per sbaglio il linciaggio di due riservisti israeliani a Ramallah, i nostri reporter si sono scusati per l’incidente, con i complimenti dell’Ordine dei giornalisti e l’assistenza del sindacato dei giornalisti, presso l’Autorità Palestinese. Casi in cui i giornali hanno fuggito l’orrore.
Nessuno ha potuto vedere la fotografia di Francesco Caldara, il pensionato di Novara ucciso dall’Isis al museo Bardo di Tunisi, con una croce rossa tracciata sopra e la scritta “crociato schiacciato”. Nella strage di Sousse, in Tunisia, è come se non fosse mai rimasto ucciso nessuno. Nessuno ha visto un corpo. Questa mistificazione in tempo di pace e guerra vale anche per la retorica, resa forte e miope da riferimenti alla Shoah, sui 300 mila migranti sbarcati nel Mediterraneo. Retorica muta per altri 300 mila migranti, i cristiani scacciati dall’Iraq. Perché l’umanitarismo cerca sempre la vittima perfetta, i derelitti senza identità che scappano dalle “guerre”. Estremizzato, l’umanitarismo porta a negare le differenze, a nasconderle. C’è foto e foto, e ci sono migranti e migranti.
Inoltre, l’umanitarismo delle foto è virtuale, non tiene conto che le decine di migliaia di migranti sono conseguenza di un “regime change”, non fatto dall’occidente a Baghdad, ma dagli islamisti a Mosul e Aleppo. Sono gli stessi umanitaristi che oggi decidono di diffondere la foto di Aylan ad aver lasciato sole Siria e Iraq, con la loro interdizione ideologica della guerra, in balia di se stesse e dei loro carnefici, assadisti, qaidisti, califfali. Per gli umanitaristi, non c’è guerra da vincere né pace da conquistare. Aylan, ma questo Calabresi non lo dice, era fuggito da Kobane, la città assediata dai decapitatori islamici. Per non parlare, sempre sulla Stampa di ieri, di Elena Loewenthal, scandalizzata perché a Praga si usa un pennarello per indicare i migranti, evocando l’Olocausto. Brava traduttrice di Amos Oz, ma perde la penna quando si tratta di firmare editoriali indignati sulle case dei cristiani marchiate dall’Isis con la “N” di nazareni, queste sì memori del nazismo (la “J” di jüde). Questo vale anche per Israele. La World Press Photo Foundation ha premiato l’istantanea di un funerale a Gaza. Piccole vittime, fratello e sorella, avvolte in un panno bianco. Sembra la Passione di Caravaggio. I funerali dei bambini israeliani non sono degni degli scatti. La barriera di sicurezza di Israele è fotografata più di qualsiasi star di Hollywood, ma solo nelle sezioni di cemento.
[**Video_box_2**]Alcune sere fa, Rai Tre ha mandato in onda un documentario sull’eccidio di Beslan, la scuola osseta dove gli islamisti trucidarono bambini e insegnanti. Ecco, di quella strage, dei suoi 186 Aylan assassinati, non si è vista una sola immagine “graphic”, ma si sono letti tanti complotti.
Visto, non si stampi.