Odissea a Kobane
Roma. Venerdì il padre di Alan (Aylan secondo la registrazione turca) ha seppellito la famiglia nel cantone curdo di Kobane, la sua città di nascita. Alan, di tre anni, la cui foto ormai morto annegato sulla riva del mare è diventata un caso politico, il fratello Ghalib, di cinque anni, e la moglie Rehan. Il padre, Abdullah, dice di voler restare a Kobane e di voler combattere contro lo Stato islamico “che mi ha tolto tutto”. Il dottore turco che lo ha soccorso dopo il naufragio aggiunge altre informazioni sulla sua odissea siriana. Fu arrestato a Damasco per cinque mesi dall’intelligence dell’aviazione militare (la più fedele ad Assad sin dai tempi del padre Hafez), gli furono cavati i denti per tortura, fu liberato grazie a una bustarella da venticinquemila dollari passata al regime e ottenuta vendendo il negozio. Dalla capitale Abdullah portò la famiglia ad Aleppo, che però divenne troppo pericolosa a causa dei bombardamenti aerei. Da lì la decisione di spostarsi nella città di nascita, Kobane, un gruppo di case sul confine polveroso della Siria, così vicino alla Turchia che i piloti siriani non rischiano il sorvolo per evitare pericolosi fraintendimenti con i turchi. In teoria un posto sicuro, perché tra il cantone curdo, i gruppi ribelli e il governo di Damasco vige una sorta di neutralità vigile. Un anno fa, però, arriva l’attacco dello Stato islamico, che vuole strappare ai curdi tutta la fascia che confina con la Turchia per gestire meglio i suoi traffici clandestini. La scusa è che i curdi appartengono a due categorie: gli atei comunisti, nemici naturali dell’islam che vanno combattuti, e i musulmani, che non possono che sottomettersi ai soldati e accettare il nuovo ordine. Lo Stato islamico conquista quasi la totalità dei villaggi intorno al villaggio, arriva a Kobane, che diventa un imbuto per tutti i curdi in fuga verso la Turchia: i satelliti mostrano migliaia di auto abbandonate davanti ai reticolati.
Kobane però diventa anche l’ultima ridotta, il luogo dove i curdi siriani si giocano tutto in una lotta di sopravvivenza che concentra in un quadrato di cinque chilometri di lato la stessa guerra che i curdi iracheni combattono su un fronte molto più ampio centinaia di chilometri a est. Passano settimane sull’orlo della sconfitta, ma non succede. Se si facesse una lista degli errori strategici più gravi fatti dagli estremisti di Abu Bakr al Baghdadi, il cantone curdo sarebbe al primo posto. Ondata dopo ondata, si gettano contro Kobane mentre i media di tutto il mondo arrivano su una collinetta a due chilometri ad assistere, come da una tribuna naturale. Il Pentagono prima dichiara il suo completo disinteresse e non invia aerei a volare su quella zona, poi fa scattare la trappola: il terreno è piatto, arido e scoperto, le bombe americane centrano ogni giorno e ogni notte i gruppi di baghdadisti che tentano di galoppare all’aperto fino alle case dove i curdi sono annidati e determinati a resistere. E’ una pagina epica di resistenza. Lo Stato islamico dichiara di avere già conquistato la città, lo fa dire al suo prigioniero inglese, John Cantlie, in veste di ostaggio e corrispondente. Invece il gruppo è costretto alla ritirata dopo perdite altissime – inclusi alcuni leader che facevano parte dell’immaginario vittorioso del jihad. Ordina perfino ai combattenti di non dormire in più di dieci nello stesso nascondiglio, per limitare il numero dei morti. A fine gennaio i curdi dichiarano vittoria.
[**Video_box_2**]Nei mesi seguenti il cantone diventa la base avanzata della riscossa contro lo Stato islamico. Comincia una lenta espansione dei combattenti appoggiati dall’aviazione americana contro quelli dello Stato islamico: è come vedere una scena a ritroso. La riconquista diventa addirittura un’incursione lenta diretta verso sud, verso il cuore siriano del territorio nemico, Raqqa. A Kobane rifluiscono i civili, a riprendere possesso di un abitato che sembra il set di un film sulla battaglia di Stalingrado, le case sono facciate vuote, i tetti non esistono più da mesi, è tutt’un saliscendi dai cumuli di macerie. Eppure riprendono le attività. Prima lo sminamento, poi la pulizia delle strade, poi i negozi, poi anche le scuole. E’ una vista insopportabile per lo Stato islamico, che a fine giugno lancia un’operazione di rappresaglia: infiltrati con divise curde arrivano in città verso sera e in una notte ammazzano 145 civili. Non è un’offensiva militare di conquista, è una esecuzione di massa che contiene un messaggio: non pensate di essere tranquilli adesso. Dopo quest’ennesima strage, Abdullah decide di lasciare la Siria e portare moglie e figli al sicuro, li guida in Turchia, compra quattro posti su un gommone per seimila euro. Dopo tre anni di violenze, dopo essere passata indenne per la battaglia di Kobane, la famiglia di Abdullah trova la sua fine in mare a poca distanza dalla costa turca.