“Tutte le possibilità di salvare la Siria come stato intero ora sono passate”
Il Cairo. Un migliaio di rifugiati per la maggior parte siriani ha abbandonato dopo giorni la stazione di Budapest, con l’intenzione di percorrere a piedi i 175 chilometri che li separano dal confine austriaco. Il loro obiettivo è la Germania, che in queste ore ha fatto sapere all’Ungheria in piena emergenza immigrazione di non avere alcun consiglio da darle. Il governo di Budapest sostiene che il flusso continuo di migranti in arrivo dal medio oriente è un problema tedesco, i ministri dell’Interno slovacco e ceco pensano a un corridoio ferroviario verso Berlino. Mentre l’Europa s’indigna con amarezza davanti alla fotografia del piccolo siriano morto in mare nel tentativo di fuggire una guerra, l’Unione che nei mesi passati ha guardato a quella guerra come un evento dopotutto lontano ha indetto una riunione di “emergenza”. Per il 14 settembre. I flussi migratori che saranno discussi dai nostri ministri non si fermeranno però finché il conflitto che scuote Iraq e Siria non sarà almeno in parte arginato.
Eppure, più passa il tempo più le soluzioni sono sempre meno attuabili. Se un tempo, all’inizio della guerra civile tra il regime di Bashar el Assad e le opposizioni ribelli, “l’unica soluzione possibile sarebbe stata quella di indurre un regime change dall’esterno”, ci dice Andrew Tabler, analista ed esperto di Siria del Washington Institute for Near East Policy, oggi è tardi: “Lo era già nel 2013”, quando il presidente americano Barack Obama aveva minacciato un intervento aereo contro il governo di Damasco, in seguito agli attacchi chimici contro la popolazione civile. “Tutte le possibilità di salvare la Siria come stato ora sono passate. Lo stato siriano è finito, e questa è la ragione principale dell’alto flusso migratorio”, spiega Tabler. Il regime siriano controlla appena il 25 per cento del territorio nazionale, e “questo crea un’emorragia di cittadini che cercano protezione”.
Oltre metà della popolazione siriana vive in una parte di territorio dove non esistono più istituzioni statali. L’area controllata dallo Stato islamico è una zona di guerra. Dall’altra parte, il 16 agosto il regime siriano ha bombardato un mercato di verdure a Damasco, nel sobborgo di Douma in mano ai ribelli, uccidendo circa cento persone. “Non vedo cosa possa fermare il flusso migratorio”, racconta Tabler, secondo il quale i contatti diplomatici in Siria non stanno andando da nessuna parte, il regime non è in grado di recuperare il territorio perso, Assad non cadrà senza una massiccia operazione militare – né l’America né l’Europa sono orientate a questo – e comunque una sua uscita di scena significherebbe un successo troppo importante per lo Stato islamico. “La politica dell’Amministrazione Obama vuole acclimatare l’opinione pubblica al fatto che questa sia la nuova normalità, che dobbiamo convivere con questo tipo di terrorismo e di stato fallito”.
In questo quadro, si sta configurando una divisione di fatto della Siria, come Tabler ha scritto su Foreign Affairs. “Dopo che queste diverse aree saranno stabilizzate dagli attori regionali – ci spiega – soltanto allora si potrà pensare di sconfiggere lo Stato islamico e rimettere assieme i pezzi”.
[**Video_box_2**]La Turchia è d’accordo con gli Stati Uniti per la creazione di una zona cuscinetto liberata dallo Stato islamico, un’area di cento chilometri quadrati in cui vivono 300 mila turcomanni, etnia vicina ad Ankara. I curdi puntano alla creazione di una provincia al sud-est della Turchia, nel nord dell’Iraq. Al sud la Giordania, come ha scritto il Financial Times, starebbe lavorando sui legami tra tribù siriane e giordane per ritagliarsi una zona cuscinetto e umanitaria. Israele, secondo indiscrezioni della stampa locale, vorrebbe lavorare con i drusi siriani del Golan, dall’altra parte del confine, per tenere tranquilla la parte siriana delle alture. L’Iran e l’alleato Hezbollah tendono al mantenimento della loro sfera di influenza territoriale nell’area della frontiera libanese.
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