Dietro la défaillance cinese c'è (anche) una resa dei conti interna
Milano. Riparte in rosso la Borsa cinese. Dopo il fine settimana e la chiusura per le commemorazioni della Seconda guerra mondiale, ieri il listino di Shanghai ha lasciato sul terreno il 2,5 per cento colpito dalla sfiducia degli investitori e dai timori sul rallentamento dell’economia cinese. Proprio ieri la Cina ha rivisto al ribasso la crescita del pil sul 2014 al 7,3 per cento dal 7,4 per cento; è la crescita più bassa dal 1990. Nel primo semestre del 2015 il dato si è attestato al 7 per cento, quindi in ulteriore calo. La Cina sta sostenendo lo sforzo di una transizione verso un nuovo modello di crescita basato sui consumi interni anziché sulle esportazioni. A poco sono servite le rassicurazioni della People’s Bank of China sui segnali di stabilizzazione e sulla disponibilità a intraprendere altre misure di sostegno. Intanto le iniziative prese fin qui per arginare il crollo delle azioni (franate più volte durante l’estate) e controllare lo yuan hanno pesato sulle riserve di valuta estera che, rivelano i dati pubblicati ieri dalla Banca centrale cinese, sono scese ad agosto di 93,3 miliardi di dollari, il maggior calo mensile mai registrato, a 3.560 miliardi di dollari.
“La reazione del mercato in Cina è causata da fattori politici non dall’economia”, dice però al Foglio il professore Huang Jing interpellato a margine del workshop Ambrosetti di Cernobbio. Jing, direttore del Centro per l’Asia e la Globalizzazione della Lee Kuan Yew School of Public Policy di Singapore, è un esperto di politica cinese, relazioni estere cinesi e sicurezza della regione Asia-Pacifico. “La reazione è stata esagerata sui mercati e la ragione è politica”, dice chiamando in causa la campagna anti corruzione senza precedenti lanciata dal governo che ha colpito importanti membri del Partito, dell’esercito e delle imprese di stato. L’imponente trasformazione dell’economia in atto passa infatti attraverso la messa in discussione delle rendite economiche a favore di alcuni membri della dirigenza. “La campagna è andata pesantemente contro i benefici delle classi che fino a oggi hanno detenuto i privilegi – dice – Queste persone hanno fatto una resistenza molto forte. Bisogna ricordare che il mercato cinese è in mano alla gente normale solo per poco più del 5 per cento mentre il resto è dominato dagli investitori istituzionali.
[**Video_box_2**]L’opposizione, che ha anche il controllo di parte di questi investitori, ha provato ad attaccare il mercato azionario questa estate, quando due leader politici erano all’estero, per tentare di sabotare la fiducia”. E ora si profila un nuovo importante appuntamento che potrebbe portare con sé un nuovo attacco: la presentazione del tredicesimo piano economico quinquennale a ottobre che rivelerà le strategie cinesi per i prossimi anni. “In Cina il rallentamento è atteso, leader politici e persone normali sono ben preparati, non è una sorpresa – dice Jing – nel paese non si parla molto di questo, l’occupazione sta facendo bene. Il tema è invece come gestire il rallentamento. Finora è stato gestito molto bene, ma ci sono problemi”. La stessa campagna anticorruzione ha un impatto sull’economia e la congiuntura globale è in una fase vulnerabile. “L’economia della Cina continuerà a rallentare”, avvisa così Jing che prevede per fine anno un pil a più 6-7 per cento. “Il punto più basso si toccherà attorno al 6 – conclude – sarei però sorpreso se scendesse sotto questo livello, il prossimo anno mi attendo una stabilizzazione”.