Il caso Kim Davis, la dittatura dei diritti
New York. Il caso di Kim Davis – l’inserviente del Kentucky che si è rifiutata di mettere la sua firma su certificati di matrimonio per coppie gay, ed è ora in carcere per aver disobbedito al mandato del tribunale – ha implicazioni e sporgenze che cadono al di fuori del perimetro della disputa sulla libertà religiosa. La sua presa di posizione illumina la lotta carsica fra la concezione liberale e quella progressista dello stato. E’ da quelle parti che va cercato il cuore ideologico del dibattito.
L’intellettuale ebreo Bruce Abramson sulla rivista Mosaic ha articolato la differenza nei suoi termini essenziali: “Una chiara linea di demarcazione inizia con la preferenza del liberalismo classico per la libertà e la legge, che si scontra con la progressista preferenza per l’uguaglianza e la giustizia”. Di conseguenza, il pensiero liberale tende a preferire “i diritti negativi che uno stato non può legittimamente violare (è il caso del Bill of Rights americano), mentre i progressisti preferiscono diritti positivi come quello alla casa, al cibo e ai servizi sanitari”. Le due concezioni danno origine a idee di stato differenti: lo stato liberale è innanzitutto un protettore degli individui, mentre lo stato progressista è un provider di servizi e diritti positivi. E’ in nome della concezione progressista dello stato, certa che non ci sia una libertà che pre-esiste alla legge, che la Corte suprema ha esteso le protezioni legali garantite dal Quattordicesimo emendamento alle coppie gay che vogliono sposarsi. Lo stato protettore della libertà e delle preferenze degli individui è diventato in questo caso un provider di certificati di matrimonio. L’astrazione del conflitto diventa incredibilmente concreta quando arriva sulla scrivania di Kim Davis.
[**Video_box_2**]La legge dello stato progressista non ammette deroghe né obiezioni di coscienza, perché non può ammettere l’esistenza di una coscienza individuale prescrittiva che precede la legge. Nonostante la North Carolina abbia introdotto l’obiezione di coscienza per superare questo tipo di contrasti in modo pacifico, gli avvocati dello stato progressista rifiutano l’idea implicita nell’obiezione di coscienza: se una coscienza esiste, i suoi dettami possono essere soltanto esercitati in forma privata. In quest’ottica, qual è la differenza con i medici che rifiutano di eseguire un aborto o di fare l’eutanasia? Nessuna, in effetti. “Molte associazioni mediche chiedono esplicitamente, e a mio avviso giustamente, di introdurre regole per obbligare i dottori a fare qualunque attività. Se non vogliono, semplicemente non devono fare i medici”, spiega al Foglio Alan Dershowitz, il gran giurista di Harvard schierato con i critici di Davis. Il Canada offre un esempio dell’ordinamento progressista portato alle sue estreme conseguenze. La Corte suprema canadese ha stabilito che dal prossimo anno i medici potranno impartire l’eutanasia ai malati che la chiedono e i dottori del Saskatchewan College hanno approvato un codice di condotta per erodere lo spazio dell’obiezione di coscienza. L’obiettore di coscienza che si trova di fronte a una richiesta di eutanasia ha il dovere di cercare un collega che sia disposto a sostituirlo, ma se non lo trova deve procedere personalmente, “anche in circostanze in cui il servizio è in conflitto con le convinzioni religiose o morali del dottore”. Lo stato progressista non può tollerare che Kim Davis pensi e agisca fuori dal suo schema dei diritti, e per risolvere la disputa ricorre al più convincente degli argomenti: il carcere.