L'America marchia il sex offender a vita, l'Inghilterra prende appunti
New York. Ai margini della società americana c’è un popolo con una lettera scarlatta appuntata sul petto. Non è la “A” di adultera raccontata da Hawthorne, ma la “S” di “sex offender”, termine intraducibile perché include stupratori, pedofili, molestatori, mostri, propalatori di materiale pedopornografico, gente che ha avuto rapporti sessuali con minorenni consenzienti, ragazzi che fanno sexting, ma anche chi, con gesto meno minaccioso, ha espletato i suoi bisogni fisiologici in un luogo pubblico. Ogni traduzione comporterebbe una riduzione. Nel sistema legale americano tutti i “sex offender” finiscono nello stesso bacino criminale.
Ci sono, naturalmente, infinite sfumature giudiziarie e gradi diversi di severità della pena a seconda dei delitti e delle circostanze in cui vengono commessi, ma tutti i criminali vengono iscritti in un apposito registro che non conosce distinzioni, ed è a disposizione del pubblico. A un colloquio di lavoro, lo status di sex offender viene obbligatoriamente allegato al curriculum, anche se la pena è già stata scontata oppure se si trattava di un reato minore rispetto ad altri nella stessa categoria. Non c’è differenza – dal punto di vista della classificazione, non della pena – fra reato violento e non violento; molto spesso vengono disposte misure cautelari speciali per questo tipo di criminali, come l’obbligo di non risiedere troppo vicino a un parco giochi o a una scuola, senza tuttavia fare troppe distinzioni né valutando il tipo di rischio per la società che il soggetto effettivamente rappresenta.
Nella notte dei sex offender tutti gli abusi sono uguali. Ogni stato ha le sue leggi specifiche in materia, ma su tutto il suolo nazionale “anche quelli che ricevono condanne relativamente leggere vengono iscritti nel registro dei sex offender. La maggior parte di questi crimini rimane registrata per tutta la vita, sebbene alcuni, come il tentato stupro, vengono cancellati dopo dieci anni”, scrive l’ex giudice militare Patrick McLain. In Texas vengono registrati come sex offender anche quelli che non sono stati condannati ma hanno patteggiato un periodo di libertà vigilata per un reato minore, sempre di natura sessuale: “Significa che una persona che non ha mai visto una cella e non è stata condannata può finire ugualmente nella lista”.
Il New York Times qualche giorno fa ha scritto un editoriale che mette in fila alcune delle leggi dure e restrittive approvate negli ultimi anni per i sex offender, e nonostante la sinistra liberal che il Times rappresenta abbia una certa passione per l’approccio “law and order” quando si tratta di crimini sessuali, va giù duro: “Proteggere i bambini dagli abusi è ovviamente la suprema preoccupazione. Ma non c’è alcuna prova che queste leggi servano allo scopo”. Di recente la Corte suprema del Massachusetts ha dichiarato incostituzionale una sentenza che aveva di fatto allontanato dalla cittadina di Lynn tutti i sex offender, a prescindere dai reati commessi. Quella sentenza era stata il fulcro su cui avevano fatto leva altri tribunali locali, cacciando dalle città tutti gli iscritti nel registro dei sex offender, un indistinto esilio senza ritorno. La Corte suprema ha scritto che “agire contro un’intera classe di individui ha gravi implicazioni sociali e costituzionali”, concetto simile a quello espresso dal massimo tribunale della California, che ha revocato un ordine di custodia cautelare del tribunale di San Diego. I sex offender che avevano già scontato la loro pena non avrebbero avuto accesso al 97 per cento delle abitazioni disponibili in città, altro caso di esilio indiscriminato.
“Invece di proteggere i bambini e le comunità – scrive il New York Times – queste restrizioni creano un rischio anche maggiore per la sicurezza costringendo molti sex offender a non avere un tetto, il che li rende più difficili da controllare e rende più difficile il loro accesso a servizi di riabilitazione”. Il sistema legale, conclude il Times, insegue “il confortevole miraggio della sicurezza”, un mondo perfettamente libero dagli sguardi torvi dei predatori, e l’unico modo per ottenerlo è marchiare a fuoco chiunque commette un crimine che sborda, anche vagamente, nella sfera sessuale e impedirgli di rientrare nei ranghi della società civile. “Un sex offender sarà sempre monitorato dallo stato, come un cittadino in uno stato comunista”, dice McLain. E oltre al problema del trattamento equo dei cittadini di fronte alla legge – che peraltro è il principio alla base della legalizzazione del matrimonio gay, un distributore di diritti positivi – c’è anche quello dell’efficacia dell’azione penale: la stragrande maggioranza dei molestatori di minori sono parenti o conoscenti delle vittime, non sconosciuti che adocchiano i bambini al parco.
[**Video_box_2**]La trappola del sexting
In Inghilterra l’operazione Yewtree, quella che ha incastrato il defunto anchorman Jimmy Savile e molti altri molestatori viventi e attivi, ha nuovamente sollevato il problema della protezione dei minori e il trattamento dei pedofili. Qualcuno, però, è preoccupato dalla piega giustizialista del dibattito e storce il naso quando si parla di criminalizzare il sexting. Come ci si comporta di fronte a uno scambio di selfie troppo spinto fra compagni di classe? Il maschio che invia la foto delle sue parti intime è un molestatore? E se lei è consenziente, e magari ricambia? E se lui è maggiorenne e lei no? Applicare i parametri legali americani che il Times bastona sembra una buona ricetta per riempire carceri e aumentare la popolazione marginalizzata, quella con la lettera scarlatta.
Sul Guardian la columnist Flic Everett ha scritto un’appassionata difesa del sexting, non come pratica in sé ma come trasposizione tecnologica dell’iniziazione all’attività sessuale che l’uomo sperimenta verso l’adolescenza dalla sua comparsa sulla terra. Everett non elogia il sexting dei ragazzi, semplicemente dice che spiegare loro come funzionano le cose in quel fatidico momento in cui gli ormoni incontrano la tecnologia è affare dei genitori, non della polizia.