Il modello Singapore regge
“Gli abitanti di Singapore sono definitivamente ‘kiasu’: ‘temono la perdita’”, dice al Foglio Yeng Pway Ngon, scrittore, poeta, pittore, libraio, libero pensatore. “Il sistema si è stabilizzato”. Le elezioni di venerdì 11 settembre lo confermano. Ha vinto il People's Action Party (Pap), partito al governo dal 1959, creatura di Lee Kuan Yew, suo fondatore, padre della patria, icona nazionale, primo ministro per 31 anni. Si conferma come premier suo figlio Lee Hsien Loong, 63 anni, in carica dal 2004. I primi dati assegnano al Pap una maggioranza del 70 per cento. Molto superiore a quella del 2011, quando il Pap aveva toccato il minimo storico (il 60,14 per cento). Se confermata, la dimensione della vittoria segnerà un passaggio notevole nella storia di Singapore, soprattutto perché ottenuta in un momento di crisi, dopo che il governo ha ribassato le previsioni di crescita economica.
Queste elezioni sono anche state definite uno spartiacque. Lo sono per molti motivi. Si sono svolte a un mese dal cinquantesimo anniversario della proclamazione della indipendenza di questa città-stato (dopo due anni di burrascosa federazione con la Malaysia e oltre cent’anni come avamposto coloniale britannico). Sono le prime dalla scomparsa, nel marzo scorso, di Lee Kuan Yewi. Sono le prime in cui i partiti d’opposizione, nove, si sono presentati in tutti i collegi elettorali, candidandosi a tutti gli 89 seggi del Parlamento. Sono le prime cui partecipa una nuova generazione di politici, cresciuti dopo l’indipendenza, tra i quali Lee Hsien Loong potrebbe designare il proprio successore (si dice che abbia voluto anticipare le elezioni di un anno per aver più tempo per prepararlo).
In realtà, queste elezioni non sono uno spartiacque. Segnano solo l’ennesima metamorfosi evolutiva di Singapore. Sono la vera eredità di Lee Kuan Yew, teorico del neo-confucianesimo, cultore di una visione della politica come strategia, innovazione e difesa dell’economia di mercato, gestita da una classe di mandarini anche con metodi poco ortodossi. Per questo spesso Singapore è paragonata a “Il Mondo Nuovo” del romanzo di Aldous Huxley, dove l'umanità è libera da preoccupazioni, sana, tecnologicamente avanzata, ricca (secondo la World Bank Singapore è al settimo posto per prodotto interno lordo), al sicuro, ma paga questi privilegi con condizionamenti e controllo sociale.
Secondo molti analisti occidentali l’insuccesso del 2011 era il primo segnale di dissenso: l’utopia si era trasformata in distopia. Il successo del Pap in queste elezioni conferma invece la visione strategica di Lee Kuan Yew. E’ ben definita da Steve Leonard, vicepresidente della Infocomm Development Authority: “Nella mente del suo creatore Singapore è soprattutto un modo di pensare: provare nuove cose, accettare che a volte non vadano come hai pensato e continuare a provare”.
“Non so dove potrei trovare un altro posto così”, conferma al Foglio Antonio Bertoletti, italiano che dirige un programma di ricerca della Agency for Science, Technology and Research. “Questo è un laboratorio. Ma la cosa più importante è la visione d’insieme: si assimilano e scambiano idee, come una rete neurale”.
“Siamo la città che abbiamo progettato”, dice al Foglio Colin Lauw, manager dell’Urban Redevelopment Autority, che programma lo sviluppo della città. Ogni volta indica la sua visione nel plastico della città, puntando un laser sullo stato dell’arte e sul da farsi. E ogni volta si vede realizzato ciò che ha detto la precedente. “Siamo la porta verso un mondo più complesso, dove tutto si definisce su schemi più evoluti”.
[**Video_box_2**]Basandosi su questi schemi Lee Hsien Loong ha saputo metabolizzare la “sconfitta” del 2011. Secondo i politologi locali era dovuta soprattutto alla sua politica d’immigrazione. Quella specializzata e ad alto reddito aveva determinato un aumento nel costo della vita (specie delle abitazioni), quella a basso reddito una diminuzione dei salari minimi. Nei tre anni successivi, nonostante la crisi, ha posto limiti all’immigrazione, aumentato i salari minimi, diminuito i costi delle abitazioni e lanciato un programma miliardario di assistenza sanitaria per gli anziani. Il tutto senza rinunciare al principio del non-welfare, cui è contrapposto il workfare, basato su lavoro e meritocrazia.
Alla fine è proprio il successo in queste elezioni che potrebbe portare a una diminuzione nel controllo politico da parte del sistema. Secondo Yeng Pway Ngon (di questo scrittore è pubblicato in Italia il romanzo “L’atelier”) questo può accadere proprio perché il sistema ha ormai raggiunto il suo scopo: l’assimilazione mentale a un modello di pensiero prestabilito. Non è in gioco la libertà: “Una volta i libri di Mao erano proibiti. Adesso si possono vendere, ma nessuno li compra”, dice.