Il canarino Alibaba
Roma. Quasi un anno esatto fa l’Ipo favolosa di Alibaba, il gigante cinese dell’ecommerce che fece l’esordio più ricco della storia alla Borsa di New York, divenne il sogno di tutta la Cina, simbolo della superpotenza dalle potenzialità economiche illimitate che grazie a una classe media in espansione stava completando con successo la transizione da economia basata sulle esportazioni a economia trainata dai consumi interni. Ma a un anno di distanza, l’economia cinese è alle prese con grandi turbolenze finanziarie e con il più grande rallentamento da molti anni a questa parte, e gli analisti dicono che chi vuole capire le vere dimensioni della crisi cinese deve mettere da parte i proclami ottimistici del Partito comunista, e guardare ad altre crisi parallele – come la crisi di Alibaba, appunto. Alibaba, ha scritto pochi giorni fa William Pesek su Bloomberg View, è “il canarino nella miniera di carbone della Cina”, i cui risultati economici raccontano come stanno davvero andando le cose nell’economia cinese meglio di qualsiasi dato sospetto sulla crescita del pil. La compagnia fondata da Jack Ma ha basato le sue fortune degli ultimi vent’anni sulla crescita tumultuosa della classe media cinese, su quella generazione che ha meno di cinquant’anni, che, come scrive Pesek, non ha visto altro che crescita a tassi del 10 per cento annuali in tutta la sua vita e che oggi, spaventata dalla crisi, si ritira dai mercati, rimanda la data del matrimonio e riduce nettamente i consumi, a partire da quelli online. E se la leadership di Pechino sta usando centinaia di miliardi di dollari e tutta la sua influenza politica (oltre che spesso la coercizione violenta) per evitare che il ribasso dei mercati abbia ripercussioni sull’economia reale, il crollo dei consumi ha delle conseguenze dirette su Alibaba, che una settimana fa ha abbassato la sua stima sulle spedizioni totali dei suoi servizi di ecommerce nel secondo trimestre dell’anno (un dato che contribuisce a definire la quantità di vendite) di una cifra imprecisata (qualche punto percentuale, ha detto l’azienda), segno che la crisi sta colpendo. In Borsa il titolo della compagnia, dopo un balzo iniziale del 75 per cento che ha visto il suo picco a novembre 2014, è in calo quasi ininterrotto dall’inverno scorso, e il 24 agosto è sceso per la prima volta sotto al prezzo iniziale fissato dall’Ipo, 68 dollari per azione: ieri un’azione di Alibaba si vendeva a circa 62 dollari. Bloomberg ha scritto che da novembre a oggi Alibaba, il cui valore di mercato si aggira intorno ai 160 miliardi di dollari, ha perso l’equivalente del valore dell’intera Samsung Electronics.
Ma il problema per chi vuole vedere in Alibaba una metafora dell’economia cinese è che il declino della compagnia sembra appena iniziato. Questa settimana Barron’s, magazine finanziario del gruppo editoriale del Wall Street Journal, ha dedicato alla creatura di Jack Ma un lungo articolo di copertina a firma di Jonathan Laing, che propone una profezia fosca: nonostante l’ottimismo che ancora circonda Alibaba (la compagnia resta un gigante che cresce e produce guadagni), il suo valore crollerà di un ulteriore 50 per cento. Laing giustifica la sua analisi principalmente con il rallentamento dell’economia, a cui aggiunge la crescita della concorrenza (soprattutto da parte del sito JD.com) e i sospetti (contro cui sono state annunciate azioni legali) che alcuni numeri pubblicati da Alibaba siano troppo ottimistici. Dopo la copertina di Barron’s, ieri il titolo è crollato in Borsa, insieme a quello dell’americana Yahoo, che possiede il 15 per cento di Alibaba.
[**Video_box_2**]E con la crescita cinese al suo minimo degli ultimi sei anni, le prospettive possono “solo peggiorare”, ha scritto Barron’s. Ieri Pechino ha pubblicato nuovi dati economici deludenti, con la produzione industriale sotto alle aspettative, mentre Fitch ha previsto che nei prossimi cinque anni la crescita del pil non supererà il 5 per cento: molto sotto al 7 fissato come obiettivo dal governo.