Putin ha già fatto il primo passo per allargare la sua coalizione
Milano. “Penso che ci sia una cosa che ora condividiamo con gli Stati Uniti – ha detto Vitaly Churkin, l’inviato all’Onu della Russia, alla Cbs mercoledì – Non vogliono che cada il governo di Bashar el Assad in Siria. Non vogliono che cada. Vogliono combattere lo Stato islamico in modo che non ci siano danni per il governo siriano. Ma non vogliono che il governo siriano si avvantaggi della loro campagna aerea contro lo Stato islamico. E’ davvero una situazione complicata”. Le parole del ciarliero Churkin – che hanno fatto imbestialire l’inviata americana all’Onu, quella Samantha Power che inorridisce davanti ai regimi, sbraita, dice che favorire un dittatore che gasa il suo popolo “non può funzionare”, ma non riesce a convincere Barack Obama a indignarsi allo stesso modo – segnalano qual è il primo obiettivo della Russia: creare una convergenza sulla tenuta di Assad, che sul campo esiste, ma che formalmente è da sempre smentita.
Se non fate cadere Assad, dicono i russi, allora possiamo parlare: gli esperti continuano a escludere un coinvolgimento attivo delle forze armate di Mosca contro lo Stato islamico, ma la grande coalizione contro il terrorismo invocata da Vladimir Putin è un collante sufficiente per avviare un dialogo tra Russia e Stati Uniti che ormai gli americani considerano inevitabile.
Nessuno ha mai creduto davvero che Assad potesse cadere sotto i colpi dell’operazione militare aerea guidata dagli americani: sentendo i generali del Pentagono due giorni fa davanti alla commissione del Senato, è stato di nuovo chiaro che non si è mai lavorato a una strategia alternativa ad Assad, né dal punto di vista dell’intelligence né da quello della formazione delle forze di opposizione. Ora i russi vogliono far sì che quel che è stato sancito sul terreno venga esplicitato, in modo che il loro uomo a Damasco – loro non hanno bisogno di un’alternativa – possa avere la legittimazione che chiede come partner della lotta al terrorismo jihadista dello Stato islamico, esattamente come sono ormai legittimati gli iraniani e le loro forze armate, i pasdaran e Hezbollah.
Che gli americani possano davvero convergere verso una coalizione a guida russa dai chiari connotati antiamericani e anti israeliani sembra piuttosto bizzarro, soprattutto per il fatto che condividere piani strategici e militari con le forze al Quds iraniane sembra ben oltre le premesse dialoganti del deal sul nucleare e invero troppo sciagurato persino per il tentennante Obama – come ha quasi urlato davanti al Congresso americano il premier israeliano Benjamin Netanyahu: “Il nemico del mio nemico è mio nemico!”. La settimana prossima il premier israeliano farà una visita d’emergenza a Mosca per discutere con Putin del fatto che l’afflusso di armi sofisticate russe in Siria e le operazioni a braccetto con i pasdaran sono una minaccia per Israele. Ma accordarsi sulla tenuta di Assad non è poi così difficile. Al Congresso americano, i democratici iniziano a chiedere se davvero allontanare il rais siriano sia una soluzione efficace. I francesi, che sono gli europei più interventisti e anche i meno filoassadisti, hanno già cambiato i toni durante l’estate: Assad non se ne deve più andare, ma “è necessario creare le condizioni per una transizione che neutralizzi” il dittatore siriano. Se si pensa che alla parola “transizione” ormai Assad si prende il lusso di dire (alle televisioni russe, naturalmente): ma come potete chiedere la mia testa visto che combatto il terrorismo?, è chiaro che le condizioni non si creeranno più. Alcuni diplomatici sono stati più espliciti. Il ministro degli Esteri tedesco, Ursula von der Leyen, ha detto allo Spiegel che ci sono “interessi mutuali” con la Russia in Siria. Il ministro degli Esteri austriaco aveva detto già la settimana scorsa che l’occidente “deve coinvolgere Assad e i suoi alleati, l’Iran e la Russia, per combattere lo Stato islamico (il presidente austriaco era a Teheran a incontrare il suo collega iraniano Hassan Rohani, in quei giorni, e si era fatto convincere dalle parole suadenti del presidente della Repubblica islamica: ci sediamo a qualsiasi tavolo ci garantisca la stabilizzazione della situazione siriana). Il ministro degli Esteri spagnolo, José García-Margallo y Marfil, ha dichiarato più o meno le stesse intenzioni: i negoziati con Assad “sono cruciali” per garantire un cessate il fuoco in Siria (argomentazione invero poco comprensibile: chi smetterebbe di sparare se si apre il dialogo con il regime di Damasco? Lo Stato islamico? La coalizione a guida americana? Il regime stesso di Damasco?).
Molti governi europei sono convinti che l’intervento russo in Siria possa avere effetti positivi sul contenimento dei flussi migratori. Putin accusa gli americani, sostenendo che la crisi dei rifugiati era prevedibile e che l’accanimento della coalizione con i bombardamenti l’ha accelerata, facendo intendere che un intervento a favore di Assad potrebbe creare la stabilità necessaria per fermare la fuga. Per questo inchinarsi alla regia russa non risulta poi così difficile, in un’Europa che da sempre si divide sul proprio rapporto con Mosca e che è abituata a farsi risolvere i propri problemi di sicurezza da qualcun altro.