La guerra del medico curdo
Milano. “Mercoledì parto, devo andare, mi aspettano”, dice il dottor Halkawt Nuri, con la sua aria calma, gli occhiali con la montatura leggera e il sorriso pronto. Ha un senso di urgenza appiccicato addosso, questo medico di Erbil, la capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno, nato nel 1980, primo di cinque fratelli, poco prima che scoppiasse la guerra tra Iraq e Iran: ora è a Milano, dove ha studiato e lavorato, si è specializzato in cardiochirurgia infantile, e vuole tornare a casa, ad aiutare i bambini nell’ospedale in cui andrà a curare le patologie del cuore, a dare una speranza alle famiglie che combattono, come lui, il nostro stesso nemico. La sua nuova casa sarà a Duhok, una città a più di duecento chilometri di distanza da Erbil, “per raggiungerla in auto ci vogliono almeno tre ore, bisogna fare la strada sicura, sulla montagna, altrimenti il tragitto è troppo pericoloso”. Duhok è a sessanta chilometri da Mosul, il feudo iracheno dello Stato islamico, la città conquistata da Abu Bakr al Baghdadi nell’estate dell’anno scorso: la caduta di Mosul e l’assedio agli yazidi determinarono l’intervento aereo della coalizione internazionale a guida americana. Da Duhok non si vede Mosul, il dottor Nuri dice di non sapere che cosa avviene là, conosce alcuni peshmerga che si sono avvicinati, ma nemmeno loro sanno dare dettagli: nessuno entra a Mosul, chi esce o scappa o viene riportato indietro, e ucciso.
Dei suoi primi anni di vita Halkawt ricorda le bombe, gli aerei di guerra sempre in volo, la paura di suo padre che non andava a lavorare ma si nascondeva perché temeva di essere reclutato per andare a combattere contro l’Iran, in una guerra senza senso. Dice che i bambini non la capiscono mai, la guerra, ma imparano a combatterla, a loro modo, prima sopravvivendo, poi impegnandosi in qualche causa. Per il popolo curdo questa è una necessità, e il dottor Nuri parla della sua terra e della sua gente con l’orgoglio di chi non si tira indietro: in questa nuova devastante guerra, i curdi combattono il terrorismo dello Stato islamico in nome di tutto l’occidente – sono i nostri “boots on the ground”, gli unici – e intanto, senza fare domande né richieste né regole, accolgono tutti quelli che scappano e arrivano in Kurdistan a rifugiarsi. “Sono tantissimi – dice – le città hanno raddoppiato la loro popolazione”.
Halkawt ha scelto di combattere la guerra facendo il medico. Ha frequentato l’università a Erbil e si è laureato. Pochi giorni dopo, suo padre è morto in un’esplosione: era il 2004, la guerra in Iraq era appena iniziata, al Qaida faceva un attentato via l’altro, contro gli americani e contro i curdi, da sempre alleati dell’occidente. A Erbil la situazione era più calma, il dottor Nuri racconta che mantenere la sicurezza della regione autonoma era da sempre l’obiettivo del governo curdo, e l’aveva raggiunto: lì si stava meglio che nel resto dell’Iraq, i bambini andavano a scuola, i genitori andavano a lavorare, con la caduta di Saddam il Kurdisitan ha vissuto un periodo di grande crescita economica. Gli attacchi a Erbil si contano sulle dita di una mano, ma in uno di questi è morto il papà di Halkawt: faceva il tecnico dell’aria condizionata, era al lavoro quando è scoppiata la bomba.
Due anni più tardi, Halkawt stava guardando il telegiornale e vide che era in visita a Erbil un medico italiano, il professore Alessandro Frigiola, che voleva costruire un centro di cardiochirurgia pediatrica nel Kurdistan e offriva due borse di studio a medici curdi per andare a specializzarsi in Italia, a Milano, al Centro cardiovascolare Edmondo Malan del Policlinico San Donato Milanese (la storia è stata ricordata domenica nell’edizione milanese del Corriere della Sera). Halkawt preparò tutti i documenti, con la fretta precisa di chi vuole arrivare in tempo ma non può sbagliare nulla, e li inviò: poco tempo dopo era Milano, a osservare il professor Frigiola in sala operatoria tutto il giorno, senza mai mancare un giorno, a studiare alla sera perché per far riconoscere la laurea in Italia aveva dovuto fare un altro anno di università. Poi ci sono stati la scuola di specializzazione, l’ultimo anno, il 2014, ad Harvard, per avere ancora più esperienza e riuscire ad affrontare ogni emergenza, le missioni in Kurdistan, circa quattro volte l’anno, per andare a operare i bambini: “Le visite del nostro team con il professor Frigiola duravano circa una settimana, ma io andavo prima e mi fermavo dopo gli interventi, per controllare che tutto andasse bene e per vedere i bambini stabilizzarsi”. Intanto ne approfittava per stare con la sua famiglia, che vive ancora a Erbil, i suoi fratelli ormai sono quasi tutti laureati anche loro. “Ho sempre voluto tornare in Kurdistan”, dice, “sono partito per studiare, qui in Europa e in America, per poter poi tornare a fare il medico a casa”. I problemi al cuore dei bambini là sono più alti che da noi: le patologie congenite derivano in gran parte dalle armi chimiche usate da Saddam Hussein contro i curdi, alla fine degli anni Ottanta. “Se l’incidenza qui è dell’uno per cento sulla popolazione dei bambini, là è molto di più, non si sa esattamente quanto, ma potrei dire almeno il 4 per cento”. Non si sa nemmeno per quanto ancora le conseguenze di quegli attacchi condizioneranno la vita dei bambini curdi, ci sono patologie al cuore, neurologiche, al cervello, ai reni, e ad ascoltarlo mi vengono in mente le immagini dei bambini siriani con la schiuma alla bocca, colpiti dal gas sarin degli aerei di Bashar el Assad nel 2013, la famosa linea rossa superata dal regime di Damasco e mai sanzionata dalla comunità internazionale: continuiamo a ripetere “mai più”, e invece.
Il dottor Nuri racconta i suoi anni di formazione e di dedizione con modestia, come se non ci fosse nulla di straordinario nella sua determinazione – soltanto alla fine della nostra conversazione mi dirà che è un pianista, che ha fatto concerti, che suona da quando è piccolino, che la musica è il suo rifugio dal rumore delle bombe – ma nella stanza assieme a noi, che è l’ufficio del professor Frigiola, c’è la signora Brigida: va avanti e indietro indaffarata, prende documenti, risponde al telefono, e ogni tanto interviene per tirar fuori qualche dettaglio. E’ la segretaria del professor Frigiola da ventitré anni, si rivolge a Halkawt come una mamma, io penso che faccia così con tutti i giovani medici che da ogni parte del globo arrivano a Milano con le borse di studio dell’Associazione Bambini cardiopatici nel mondo fondata dal professore, ma lei sorride, “no, un momento, non sono tutti uguali”, e dà un buffetto al dottor Nuri, gli dice “dài, racconta che cosa ti ha detto la tua mamma quando dovevi venire in Italia”. Lui abbassa gli occhi, sa che a Brigida non si può dire di no, e spiega: “Non volevo lasciare Erbil, era morto mio papà, sentivo di dover stare con la mia famiglia, ero il più grande, ma mia mamma me lo impedì: è il tuo sogno, vai”, se la guerra uccide anche i desideri di quando si è piccolini, allora la pace non tornerà mai.
Il dottor Nuri mi mostra alcune fotografie scattate a Duhok, all’Azadi Center dove sta per tornare, dove c’è la strumentazione più avanzata e il team di medici curdi è stato tutto formato grazie alle borse di studio del professor Frigiola. Riguardano gli interventi al cuore che ha fatto ad agosto, prima di tornare in Italia per definire gli ultimi dettagli del progetto: c’è un bambino che avrà quattro anni fotografato appena dopo l’operazione al cuore, con i tubi e il pancino scoperto, “viene da Kobane – dice Halkawt – la sua famiglia è scappata, il piccolo aveva bisogno di essere curato: quando Kobane è stata liberata, suo papà è tornato là a vedere che cosa restasse della loro casa: niente”. In un’altra fotografia, c’è un altro bambino uscito dalla sala operatoria, sembra ancora più minuscolo dell’altro, ha la sindrome di Down, con lui c’è la sua mamma, “sono cristiani – racconta il dottor Nuri – vengono da Mosul, sono in fuga anche loro”.
Soltanto a Duhok ci sono quasi due milioni di persone in più rispetto alla normalità, arrivano dalla Siria, dall’Iraq, scappano dalle bombe di Assad, scappano dalla ferocia dello Stato islamico, i loro bambini non vanno più a scuola, i loro nonni si ammalano, si rifugiano nel campo profughi enorme che è stato costruito lì, “hanno lasciato tutto quel che avevano, sono poveri, cercano un lavoro, se potessero resterebbero da noi, ma il governo è affaticato, non ci sono più molte risorse, e intanto i peshmerga continuano ad andare a combattere”. La solitudine del popolo curdo è una delle più sciagurate ipocrisie della guerra occidentale al terrorismo, il dottor Nuri non vuole fare analisi geopolitiche, non gli interessa valutare se i bombardamenti siano troppi o troppo pochi, ribadisce la sua gratitudine per quello che gli americani hanno sempre fatto per il Kurdistan, osserva soltanto quel che sta accadendo, i letti nelle corsie dell’ospedale perché le stanze non bastano più, per esempio. “Gli europei sono stati generosi, a Erbil (dove operano anche gli italiani, ndr) sono arrivati aiuti e armi, ma non bastano. Non sono sufficienti a farci resistere”, figurarsi a farci vincere. Non c’è un’ombra di lamentela nel tono del dottore, semplicemente bisogna fare di più, “perché la situazione peggiora sempre”, e “fare di più” non significa soltanto pensare a strategie militari o a collocarsi nelle diverse sfere di influenza che si stanno formando in tutta la regione, ora che i russi e gli iraniani hanno esplicitato il loro coordinamento militare nel provare a tenere su il regime di Assad. Significa anche trovare una soluzione alla crisi migratoria che sta destabilizzando l’Europa: “Come tutti i migranti, anche questi profughi cercano una vita migliore, se potessero trovarla qui, non partirebbero per l’Europa, si fermerebbero in queste terre, che sono le loro terre”, con la speranza di tornare un giorno a casa. E’ lo stesso appello che fanno molti altri popoli della regione: dateci la possibilità di rimanere.
[**Video_box_2**]Il dottor Nuri ricorda l’unica volta che ha dovuto anche lui lasciare Erbil, scappando: era l’inizio degli anni Novanta, i peshmerga avevano liberato il Kurdistan ma di lì a poco l’esercito iracheno di Saddam l’avrebbe rioccupato. “Mio padre decise che non potevamo più rimanere, e partimmo”. Salirono su un piccolo pickup in dodici, stretti stretti, quattro giorni per fare poche centinaia di chilometri, arrivarono in un campo profughi in Iran: non c’era da mangiare, non c’era l’acqua, faceva molto freddo, e la paura di non tornare più a casa faceva piangere sempre tutti i bambini. Non durò a lungo: la famiglia Nuri ha avuto la fortuna di poter rientrare, ma il primogenito oggi non ha nemmeno un’esitazione quando dice che “dopo quell’esperienza l’unica cosa che volevo e che volevamo noi curdi era la caduta di Saddam Hussein: non ci importava chi sarebbe venuto dopo, non poteva essere peggio di quello che c’era”.
La paura del prima e la paura del dopo hanno tenuto in ostaggio questo pezzo di mondo, la Siria è sempre lì a ricordarcelo. Halkawt dice che quel che si sta facendo oggi non sta funzionando, “la situazione peggiora, ci sono più migranti, ci sono più morti, bisogna fare qualcosa”. La decisione su come e cosa fare “la lascio ai politici, ma deve essere una risposta forte”. Il dottore dissemina la nostra chiacchierata di considerazioni precisissime – gli americani non avrebbero dovuto ritirarsi nel 2010, ora senza soldati sul campo mandati dall’occidente non si può vincere, soprattutto non si può ricostruire nulla – ma ha già la testa a domani, quando tornerà in Kurdistan a operare, “altrimenti rimane tutto fermo”. “Ma i documenti ti sono arrivati?”, gli chiede la signora Brigida, lui risponde di no, ma dice che partirà lo stesso: aspetta il rinnovo del permesso di soggiorno per poter rientrare in Italia, potrebbe volerci ancora tempo, forse costerà un viaggio in più a Milano, ma non importa. Il suo senso di urgenza gli si è riappiccicato addosso, ed è ora di andare.
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