La "scandalosa" nomina dell'Onu: l'Arabia Saudita alla presidenza di un panel sui diritti umani
Secondo Hillel Neuer, direttore esecutivo di UN Watch, l’elezione di Trad alla presidenza altro non è che il frutto di un compromesso politico. L’Arabia Saudita aveva proprosto la propria candidatura alla presidenza del Consiglio dei diritti umani, una posizione considerata troppo in vista per un paese che, secondo le ultime statistiche rilasciate da Amnesty International e dall’agenzia di stampa AFP, solo nell’ultimo anno ha compiuto un’esecuzione capitale ogni due giorni. I rappresentanti del Consiglio basato a Ginevra hanno raggiunto allora un accordo, ipotizza Neuer, affinché Riad ottenesse almeno la presidenza del comitato consultivo in cambio del ritito della propria candidatura a quella del Consiglio. L’ong chiede ora una reazione dei vertici della diplomazia mondiale e ricorda il silenzio-assenso con cui sia gli Stati Uniti sia l’Unione europea avevano accolto l’ingresso dell’Arabia Saudita nel Consiglio: “Avere Riad come membro dell’Unhrc è già un male di per sé”, ha detto Neuer, “ma lasciargli presiedere un organo chiave delle Nazioni unite è come versare del sale sulle ferite dei dissidenti rinchiusi nelle prigioni saudite, come nel caso di Raif Badawi”. Raif è un blogger saudita incarcerato per aver protestato in favore della libertà di espressione. Dopo essere stato torturato, Badawi ha ammesso di aver partecipato alle manifestazioni. Secondo la legge islamica della sharia è stato condannato a mille frustrate.
[**Video_box_2**]Quello di Badawi è solo uno dei tanti casi di violazione dei diritti umani perpetrati dall’Arabia Saudita, un regno chiave per l’occidente sia per la lotta all’integralismo e allo Stato islamico, sia per i suoi giacimenti petroliferi. E’ di lunedì la notizia della condanna a morte tramite decapitazione e successiva crocifissione del ventunenne Ali Mohammed al Nimr, un blogger sciita. Il giovane, arrestato nel 2012 quando aveva appena 17 anni, è stato giudicato colpevole di aver partecipato a una manifestazione antigovernativa e di detenere armi da fuoco. Accuse estorte al termine di un processo che non garantiva i diritti minimi dell’imputato che è stato anche sottoposto a tortura, secondo quanto appurato dalle ong che si sono interessate al caso. Ali è figlio di un attivista politico e nipote di Sheikh Nimr Baqir al Nimra, un membro del clero sciita, anche lui condannato a morte nel 2014 per aver assunto la guida del movimento di protesta dell’est del paese, dove la maggioranza sciita si oppone alla politica discriminatoria della casa regnante sunnita. AFP e Amnesty dicono che le condanne alla pena capitale nel paese aumentano ininterrottamente dall’agosto dello scorso anno e hanno raggiunto livelli senza precedenti nel 2015 con la nomina del nuovo re Salman. Le decapitazioni in programma sono diventate talmente numerose da rendere insufficienti i boia in servizio. Così, lo scorso maggio, il servizio civile saudita ha pubblicato un bando sul proprio sito per reclutarne altri otto chiedendo la disponibilità a ricoprire la carica di “funzionari religiosi”.