La visione per il medio oriente
“Safe zone” e blitz. La dottrina Petraeus contro lo Stato islamico
Milano. La Siria è “una Chernobyl geopolitica”, ha detto il generale David Petraeus martedì davanti alla commissione Forze armate del Senato americano, e no, là “non valgono le regole di Las Vegas: quel che accade in Siria non resta in Siria”. Nella prima testimonianza davanti al Senato da quando, nel 2012, Petraeus lasciò la guida della Cia, il generale si è scusato per aver divulgato informazioni classificate in quel maldestro scandalo che riguardava il suo affaire con l’amante Paula. I giornali hanno titolato sulla “apology”, come se fosse questa la notizia – il generale si è pentito! – e non tutto quello che ha detto in seguito, tre ore di analisi precise su quel che è andato storto nella guerra contro lo Stato islamico (Is), e su quel che si può ancora fare.
“Si dice sempre che non esiste una soluzione militare in Siria o negli altri conflitti in medio oriente – ha detto Petraeus – E questo può essere vero, ma è fuorviante. Se vogliamo che resti viva la speranza di creare un accordo politico, è necessario consolidare un contesto militare e di sicurezza, e questo contesto non si materializzerà da solo. Noi e i nostri alleati dobbiamo facilitarlo – e nei passati quattro anni non l’abbiamo fatto”.
Non siamo al punto in cui avremmo dovuto essere dopo un anno di bombardamenti in Iraq e in Siria contro lo Stato islamico, dice Petraeus, “è stata messa insieme una grande coalizione, dei leader-chiave di Is sono stati uccisi o catturati, e il sostegno di certe forze locali ha permesso di ricacciare indietro Is in alcune aree. Parte della strategia funziona, ma molti altri elementi sono senza risorse, e altri ancora non ci sono proprio”. Partendo dalla disamina degli errori fatti – errori dettati dalla mancanza di iniziativa americana: “La recente escalation militare della Russia in Siria è un ulteriore promemoria del fatto che, quando gli Stati Uniti non prendono l’iniziativa, altri riempiono il vuoto, spesso in modi che sono dannosi per i nostri interessi” – Petraeus traccia i contorni della sua dottrina per la lotta allo Stato islamico. Come accadde con il “surge” nel 2006, il generale cerca innanzitutto di definire una strategia per poi valutare, in un secondo tempo, gli aspetti tecnici per applicarla: noi ci perdiamo in inutili disserzioni sui “boots on the ground”, sì o no, irrimediabilmente arroccati su posizioni inconciliabili, mentre il generale ha una road map in testa, con obiettivi nitidi.
[**Video_box_2**]Grande sostenitore già dal 2012 dell’addestramento e della fornitura di armi ai ribelli siriani, Petraeus dice che quel che è stato fatto finora non è sufficiente – in realtà è ridicolo: da quando, il 16 settembre scorso, si è saputo che sono stati armati “quattro o cinque” ribelli, si moltiplicano ironia e barzellette – e che il mezzo miliardo di dollari speso nella missione è stato quasi sprecato. Oggi è necessario creare alcune “safe zone”, enclavi in territorio siriano, difese dalla copertura aerea della coalizione, in cui addestrare le forze locali, e soprattutto proteggerle dallo Stato islamico e dalle bombe del regime di Bashar el Assad. La popolazione sunnita “non vorrà mai sostenerci se non la sosteniamo noi quando è sotto attacco di Assad, dello Stato islamico o di Jabhat al Nusra”. E’ questo il cuore della dottrina del generale-antropologo: conquistare la popolazione locale, difendendola, portandola così dalla tua parte. Per questo Assad deve sapere che non può più bombardare i civili con le barrel bomb, altrimenti “impediremo all’aviazione siriana di volare: possiamo farlo, il nostro esercito può valutare come fermare gli aerei” del regime di Damasco. Assad se ne deve andare “ultimately”, cioè non adesso che non c’è alcuna alternativa politica, ma quando ci saranno le condizioni per la ricostruzione. E per crearle non bastano le bombe dell’alto, ci vuole un sostegno a terra alle forze locali, ai peshmerga e a chi già combatte il terrorismo al posto nostro.