In America gli asiatici saranno presto più degli ispanici
Roma. Il voto degli ispanici, nelle campagne presidenziali americane dei prossimi cinquant’anni, non conterà più quanto quello degli asiatici. E il pivot asiatico di Barack Obama, la politica estera tutta diretta verso l’oriente, avrebbe dovuto essere un primo passo per avvicinare i due continenti. Secondo un report pubblicato ieri dal Pew Research Center sulle previsioni dell’immigrazione negli Stati Uniti entro il 2065, già tra quarant’anni gli asiatici saranno il 36 per cento degli immigrati d’America, mentre gli ispanici si fermeranno al 34 per cento, per poi scendere progressivamente nei successivi dieci anni fino al 31 per cento della popolazione straniera. Un cambio di passo notevole, visto che oggi quasi un immigrato su due è ispanico. Secondo le previsioni del Pew, inoltre, nel 2065 la popolazione americana arriverà intorno ai 441 milioni di persone, e il 18 per cento di loro sarà straniero. A oggi, la popolazione non nata su suolo statunitense si ferma intorno al 14 per cento.
Se gli asiatici saranno gli immigrati più numerosi d’America – e quindi, di conseguenza, tra i più influenti sulle decisioni di Washington – c’è un motivo demografico: gli ispanici arrivati tra gli anni Sessanta e Settanta ora hanno figli che sono legittimamente cittadini americani. Inoltre, se le famiglie messicane trent’anni fa erano molto numerose, oggi preferiscono fare meno figli, spiega Mark Hugo Lopez, direttore del Pew per gli Studi ispanici. Negli ultimi anni invece si sta verificando un altro tipo di fenomeno: gli immigrati cinesi, e anche quelli indiani, arrivano in America in massa per studiare e specializzarsi, specialmente nei settori delle nuove tecnologie. Non cercano la cittadinanza. Studiano, lavorano, e tornano a casa, in patria. Il 41 per cento degli immigrati in America nel 2013 ha almeno una laurea, ed è per questo che, a oggi, il 47 per cento degli americani dice che l’immigrazione dall’Asia può avere un impatto positivo sulla società statunitense. Gli asiatici in stati come la Florida e soprattutto la California hanno già iniziato a determinare l’economia, e la politica. Tokyo ha protestato ufficialmente, qualche settimana fa, per la decisione del governo di San Francisco di istallare nella città un memoriale permanente per le donne di conforto sudcoreane, prendendo una posizione chiara sulla decennale questione delle schiave del sesso ai servizi dell’esercito giapponese. Ma la popolazione coreana, in California, rappresenta l’1,2 per cento della popolazione.
[**Video_box_2**]Quando nel maggio scorso Shinzo Abe, il primo ministro giapponese, è stato in visita ufficiale in California, è stato il primo premier conservatore nipponico a onorare i caduti giapponesi-americani che servirono l’esercito di Washington, e ha portato una corona di fiori al “Go for Broke monument” di Little Tokyo, a Los Angeles. Ma sulla stampa, più che questa notizia, sono finite le proteste della popolazione cinese e sudcoreana, contraria al “pericoloso revisionismo storico” di Abe. Ieri il Los Angeles Times raccontava la storia dei diciotto bambini che frequentano il primo asilo di Orange County in cui si studia, nella stessa classe, sia l’inglese sia il vietnamita. In Vietnam la lingua inglese è già da anni introdotta come corso scolastico obbligatorio. Durante la metà degli anni Settanta e all’inizio dei Novanta, però, i vietnamiti che scappavano dal regime con il sogno di raggiungere l’America erano chiamati i “boat people”, con un’accezione piuttosto dispregiativa. La vita degli asiatici d’America è raccontata magistralmente nel libro “The Making of Asian-America”, appena uscito per Simon and Schuster. Lo ha scritto Erika Lee, che insegna Storia all’Università del Minnesota, e che prima di essere un’accademica è la nipote di immigrati cinesi, che arrivarono in America attraverso Angel Island ed Ellis Island. Lei, come molti asiatici americani, è cresciuta a San Francisco e ha preso il dottorato a Berkeley.