La campagna russa
Putin inizia la guerra in Siria colpendo lontano dallo Stato islamico
Roma. Una volta piazzati bene al loro posto tutti i pezzi necessari, ieri mattina è cominciata la campagna aerea in Siria ordinata dal presidente russo Vladimir Putin a sostegno del periclitante presidente Bashar el Assad, in piena crisi militare. Contando che l’intera operazione è cominciata dal punto di vista materiale ai primi di settembre, ci è voluto meno di un mese. La Duma di Mosca ha dato ieri mattina l’approvazione unanime alla richiesta di autorizzazione per l’intervento all’estero dei militari russi. Il governo siriano ha spedito una lettera di invito alla Russia, chiedendo il suo intervento militare “in aiuto contro il terrorismo” – e così dà un appoggio legale alla presenza delle forze mandate da Mosca nelle tre basi sulla costa vicino a Latakia. Questo passaggio formale manca invece alla Coalizione internazionale guidata dall’America, che agisce grazie a un accordo tacito di tolleranza con il governo di Damasco – “loro bombardano lo Stato islamico, noi non protestiamo”. A Baghdad negli ultimi tre mesi è stato allestito un Comando militare in cui i russi operano assieme a siriani, iraniani e iracheni: ieri il generale russo Yuri Yakubov ha detto che proprio quel centro a Baghdad serve come Comando centrale nelle retrovie per le operazioni che partono da Latakia – svolge le stesse funzioni della filiale del Centcom americano in Qatar, che da lì dirige le missioni americane in Siria e Iraq. Martedì è stata confermata – grazie a un avvistamento diretto – la notizia che in Siria sono arrivati anche i Su-34 “Fullback”, i migliori bombardieri russi, con un raggio d’azione sufficiente a colpire in tutta la Siria e tornare alla base.
Un blog per specialisti (Oryx) osserva che grazie all’arrivo dei Su-34 “Fullback” degli alleati russi l’aviazione al servizio di Assad “ora è promossa al campionato maggiore”.
Tutti i pezzi del piano russo in Siria sono finiti al loro posto, quindi: approvazione politica interna (a proposito, si chiedono gli americani: e da noi? 418 giorni di raid aerei in medio oriente senza approvazione del Congresso), invito siriano, un Comando centrale affollato in coabitazione con gli alleati a Baghdad e gli uomini e i mezzi della spedizione bene attestati nell’estremo ovest della Siria (in tre basi dove ai siriani non è permesso entrare per ragioni di sicurezza: i russi non vogliono potenziali infiltrati). C’è anche, com’è naturale, un tentativo di copertura diplomatica internazionale. Questa settimana il presidente Putin è intervenuto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York, cosa che non faceva da dieci anni, per spiegare le ragioni dell’intervento: “Contro i terroristi l’unica strategia che funziona è l’azione preventiva, non si può aspettare che ti arrivino a casa”. E la chiesa ortodossa russa, legata alla presidenza Putin dalla condivisione molto sentita di uno stesso clima di restaurazione dei valori di una volta (quanto riuscita è ancora da vedere), ha definito l’intervento “una guerra santa” – per la gioia dei gruppi jihadisti siriani. Infine, anche un contentino per America e Israele: l’avvertimento con un’ora d’anticipo sull’inizio dei bombardamenti. Fox News ha detto che i russi hanno chiesto agli americani di non fare più voli sulla Siria, ma sembra che sia stata una più blanda richiesta di deconfliction per evitare problemi tra gli aerei (la deconfliction è quando due forze militari si mettono d’accordo per non intralciarsi mentre combattono nello stesso luogo). E’ avvenuta così: prima l’ambasciata americana a Baghdad ha ricevuto una telefonata, poi è arrivato un generale russo a tre stelle ad avvertire di persona. “Tra un’ora cominciamo a bombardare. Tenete a terra i vostri aerei”. L’incontro è descritto come “breve e teso”. La richiesta è stata ignorata da parte americana. Nancy Youssef, reporter che si occupa del Pentagono per il sito Daily Beast, ha raccolto questo commento sconsolato dalle sue fonti militari: “Siamo diventati la prison’s bitch di Putin”, dove il termine indica il prigioniero disgraziato che i compagni di cella sottomettono per fini turpi.
[**Video_box_2**]Tutti questi preparativi e questo mettere i pezzi a posto hanno partorito un’operazione che secondo il ministero della Difesa di Mosca ha colpito “con precisione bersagli del gruppo terrorista Stato islamico” e secondo tutti gli altri ha colpito gruppi che non c’entrano con lo Stato islamico. Quattro Su-25 russi hanno bombardato cinque postazioni a nord della città di Homs, in una zona dove lo Stato islamico non c’è: il gruppo di Abu Bakr al Baghdadi controlla un vasto territorio che comincia molto più a est. Annotazione teorica: chiunque volesse colpire lo Stato islamico potrebbe cominciare dalle sue roccaforti siriane, Raqqa, Shaddadi, la zona di Palmira, le città nella parte est del governatorato di Aleppo. Gli obiettivi non mancano perché lo Stato islamico controlla una parte del territorio siriano più ampia di quella controllata dal governo Assad – ma non più popolosa. Vale tutto quello che sta tra il fiume Eufrate e il confine (anzi, l’ex confine, perché è ormai sparito) con l’Iraq e non è escluso che gli aerei russi voleranno anche là. Ieri invece le bombe russe hanno colpito i gruppi “moderati”, che ormai sono così residuali e ridotti che possono essere scovati soltanto da un bombardamento di precisione. Una bomba ha centrato il quartier generale della fazione Tajammu al Izzah, che è una delle poche considerate così affidabili da ricevere i missili controcarro Tow, usati con profitto da un anno contro i carri armati di Assad. Il primo giorno di operazioni russe è lontano dall’essere una secca operazione antiterrorismo e recapita un messaggio politico: Mosca difende prima di tutto il governo di Damasco. Ieri i jet americani hanno effettuato 50 raid aerei contro lo Stato islamico, a Kirkuk.