Nella strage dell'Oregon si sovrappongono i fotogrammi dell'orrore odierno
New York. Il giorno dopo la tragedia per arma da fuoco si ricostruisce il profilo. Quello successivo si glorifica l’eroe che ha tentato di fermarlo, ma c’è ancora tempo. Nella testa di Chris Harper Mercer nessuno ci è mai entrato, quindi ora si tratta di rimettere insieme brandelli di social network, precedenti penali, dichiarazioni di amici, tipizzazioni psicologiche e altro per trovare quello che tutti sempre vorrebbero trovare quando un ragazzo di 26 anni si mette a sparare nell’aula di un campus, uccidendo dieci persone: magari non una ragione, ma uno straccio di logica, benché assassina e tragica. Sulla follia insensata, indecifrabile, si è sempre a corto di argomenti.
Che tipo di assassino è Mercer? Il fondamentalista islamico? Il suprematista bianco? Il sociopatico? L’ambizioso sotto pressione? Il militarista con la fissa dei fucili? L’hater che perde il controllo? Lo psicopatico senza diagnosi? La vittima dei bulli da social network? I dettagli che i segugi stanno recuperando dalla scena della sparatoria e dal passato del ragazzo sono confusi, sfuggono all’incasellamento rassicurante in un profilo noto, riconoscibile. I sopravvissuti della strage di Roseburg dicono che ha fatto alzare le vittime, e prima di sparare chiedeva loro di che religione fossero. Chi ha detto di essere cristiano si è preso un proiettile in testa, chi ha risposto altrimenti o non ha detto nulla è stato gambizzato. E’ un particolare uscito direttamente dal manuale degli orrori dello Stato islamico, ma non s’incastra bene con gli altri pezzi del puzzle. Mercer odiava la religione organizzata, si deduce da frasi ripescate online, in cui si definiva “non religioso ma spirituale”, ma era anche un ammiratore dell’Ira che citava Bobby Sands.
Ci sono riferimenti nazisti, ampio sfoggio fotografico di muscoli e armi, ma anche espressioni di generico rancore e di solitudine, profili in siti di appuntamenti online dove cercava più compagnia che avventure. C’è il rapporto stretto con la madre, che subito sui giornali diventa un tormentone morboso, edipico.
Su un blog ha glorificato Vester Flanagan, l’uomo che ha ucciso la collega e il cameraman in diretta televisiva in Virginia, non per il movente ma per la fama che questo gli ha portato: “Ho notato che tanta gente come lui è sola e sconosciuta, eppure quando versano un po’ di sangue il mondo intero si accorge di loro. Un uomo che non era conosciuto da nessuno ora è noto a tutti. La sua faccia viene messa su tutti gli schermi, il suo nome passa sulle labbra di tutte le persone del pianeta, tutto nel giro di un giorno. Sembra che più gente uccidi, più sei in vista”.
[**Video_box_2**]Un mitomane disturbato che voleva la fama planetaria, dunque. Ma che c’entra la selezione religiosa delle vittime e il terrorismo irlandese? Nulla, ma è come se la strage dell’Oregon mostrasse un compendio, un trailer riassuntivo di tutte le manifestazioni dell’orrore di oggi. Tutti gli assassini, da Raqqa a Charleston a Santa Barbara, fanno indirettamente capolino con il loro bagaglio di immagini, sono comparse in questo film pornografico del male, arrivato sugli schermi di Mercer da tutti i canali, da tutti i social per poi essere riproposto sulla scena, altrettanto reale, di un’università dell’Oregon. E’ un processo di sovrapposizione di immagini, un collage digitale di morte dove il Califfo al Baghdadi si ritrova a fianco di Dylan Roof, che sventola la bandiera confederata, e Palmira confina con il Virginia Tech. Un affastellarsi disperato di orrori odierni, un istinto mimetico, come gli abiti che spesso indossava l’assassino.