L'islam radicale nel sud-est asiatico si nasconde, ma c'è
Bangkok. “L’islam è una religione cattiva: uccidi e vai in paradiso”. Così dice un pha ajarn, un monaco buddista thai ritirato in meditazione nella foresta. E’ come se il buddismo, filosofia di compassione e tolleranza, fosse stato sopraffatto dai phi lok, i fantasmi che si nutrono di paura.
C’è uno spettro che si aggira per il sud-est asiatico: l’estremismo islamico. Potrebbe contagiare quasi la metà dei 625 milioni d’abitanti dell’Asean (l’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico): quella musulmana. Ha già fatto migliaia di vittime. Le ultime due sono italiani: il cooperante Cesare Tavella, assassinato pochi giorni fa in Bangladesh e l’ex missionario Rolando Del Torchio, rapito il 7 ottobre nelle Filippine.
“L’idea prevalente, se non un cliché, è che l’islam del sud-est asiatico sia in modo uniforme, prevalente e storicamente moderato”, scrive Clive Kessler, professore d’Antropologia all’università di Sydney. “Sì, l’islam di questa regione è differente. E’ un islam di stampo culturale malese-indonesiano piuttosto che arabo mediorientale. E’ un islam di graduale, spesso quasi osmotico, assorbimento culturale. Tuttavia, a causa della diffusione contemporanea dell’islam, che oggi presenta l’arabizzazione come sua unica e vera forma, questo non è il quadro completo. Ci sono molti covi, terreni di coltura e nidi di un islam estremo in tutta la regione”.
E’ lo scenario delineato da Dennis Ignatius, ex diplomatico malesiano. Secondo Ignatius, nel sud-est asiatico si sta riproponendo la teoria del domino. Elaborata negli anni della Guerra fredda, Ignatius sosteneva che, qualora una nazione chiave fosse stata conquistata dai comunisti, le nazioni vicine sarebbero cadute anche loro come tessere di un domino. Oggi l’estremismo islamico ha preso il posto del comunismo. “Violenti gruppi jihadisti hanno attecchito nelle Filippine, in Indonesia, Malesia e Thailandia”. Secondo Ignatius, è dovuto a una progressiva “saudizzazione” del sud-est asiatico, ossia “l’esportazione dell’ideologia wahhabita, della cultura dell’intolleranza, dell’odio e della violenza che pervade gran parte del medio oriente”.
L’obiettivo finale, come ha rivelato nel luglio scorso il quotidiano malesiano New Straits Times, è la costituzione del Daulah islamiah Nusantara (l’arcipelago dello stato islamico), un Califfato che comprenda Malesia, Indonesia, Singapore, sud della Thailandia e sud delle Filippine. Secondo le fonti del giornale quattro gruppi estremisti islamici della regione hanno stipulato una patto basato sull’ideologia Salafi Jihadi, simile a quella di al Qaida e dello Stato islamico, e stanno svolgendo un’opera molto aggressiva di reclutamento. Lo scenario sembra confermato da un rapporto dell’Unodc, l’organizzazione delle Nazioni Uniti per la droga e il crimine. Nella conferenza dedicata alle “efficaci risposte alla situazione dei foreign terrorist nel sud-est asiatico”, che si è tenuta a Bangkok nel giugno scorso, Jeremy Douglas, rappresentante regionale dell’Unodc, ha rivelato che sono circa mille i foreign terrorist fighters provenienti dal sud-est asiatico. “E’ un trend in crescita”, ha dichiarato.
Una tendenza che può sfuggire a ogni controllo se si considera il numero di lavoratori del sud-est asiatico impiegati in medio oriente e delle centinaia di migliaia di thai-malesi che fanno la spola tra i due paesi. Tutte potenziali reclute di un Califfato che, come in medio oriente, sfrutta non solo l’appartenenza religiosa, ma ancor più si alimenta di tensioni etniche, nazionalismi, sperequazioni economiche e di una disastrosa eredità coloniale, che, in nome del commercio e del libero scambio, aveva imposto migrazioni tra società indigene chiuse. In un altro convegno sulla “libertà religiosa in sud-est asiatico” che si è tenuto a Bangkok ai primi d’ottobre, il relatore speciale Onu Heiner Bielefeldt ha rilevato un ulteriore elemento critico: la “politicizzazione della religione”. Ecco perché, come ha scritto Ravi Velloor, editorialista dello Straits Times di Singapore, “lo scenario asiatico comincia a sembrare quello di un bazar affollato prima di uno scontro tra bande”.
Bangladesh e Birmania
“Non credo sia solo la religione a dare una particolare connotazione al paese, ma di sicuro gioca il suo ruolo”, dice al Foglio un’italiana che lavora per una Ong in Bangladesh. Lì, lunedì 28 settembre, è stato assassinato il cooperante italiano Cesare Tavella. “In un’operazione speciale dei soldati del Califfato una pattuglia ha preso di mira lo spregevole crociato” è la rivendicazione in rete. Una settimana dopo è stata la volta del giapponese Kunio Hoshi. Poi, il pastore protestante aggredito con i coltelli da tre persone che “volevano parlare di religione”, scrive il NYT.
Il Bangladesh non fa parte del sud-est asiatico. Né geograficamente, né politicamente (non è membro dell’Asean). Ma è un buon punto di partenza per comprendere il fenomeno dell’estremismo islamico in quell’area.
Come testimonia la cooperante italiana, “il Bangladesh è uno dei paesi islamici in cui diversi gruppi religiosi vivono uno di fianco all’altro e la società civile è in continua evoluzione”. Ma è anche uno dei paesi più poveri al mondo, afflitto da cicliche calamità climatiche. Terreno ideale per gruppi come l’Ansarullah Bangla, collegato all’Isis, responsabile degli omicidi di blogger “atei”, che ha minacciato di colpirne altri all’estero. E così l’immagine del Bangladesh come paese “moderato” si è incrinata. Tanto più per le ambiguità del governo. Lo dimostra lo “scetticismo” del primo ministro Sheikh Hasina riguardo alla responsabilità dell’Isis negli omicidi dei cooperanti, che considera invece un complotto dell’opposizione.
Il Bangladesh, inoltre, è la “porta occidentale” del paese che oggi incarna la più stretta osservanza buddista: la Birmania. Proprio sul confine, nello stato birmano del Rakhine, si consuma la tragedia dei musulmani Rohingya. Sono circa 800 mila persone, etnicamente bengalesi, i cui antenati migrarono dal Bangladesh. In Birmania sono considerati immigrati illegali, vittime designate per ogni violenza. Molti Rohingya sono talmente disperati da cercare rifugio in Bangladesh. Dove sono confinati in campi privi d’ogni assistenza e dove la loro disperazione alimenta potenziali sacche di terrorismo: i simpatizzanti dell’Isis hanno invitato i Rohingya a combattere in Siria per sfuggire alle persecuzioni in Birmania.
Ben Rhodes, considerato il braccio destro di Barack Obama per gli Affari esteri, ha definito il trattamento dei Rohingya come “un abominio”. In Birmania, però, i Rohingya materializzano una paura sempre più diffusa: quella di un’invasione musulmana che si compie su due fronti. Esterno, dal Bangladesh, e interno, con l’allargamento della popolazione musulmana. Ha dichiarato Aung San Suu Kyi: “La paura non è solo dei musulmani, ma anche dei buddisti. C’è la sensazione che il potere musulmano, il potere musulmano globale, sia molto forte”.
Thailandia e Filippine
“Perché vuoi andare laggiù? Sono musulmani, gente cattiva”, dice l’autista di taxi di Hat Yai, la città che è la porta del profondo sud thailandese. Laggiù significa le tre province a maggioranza musulmana di Narathiwat, Pattani e Yala, teatro di una guerra tra governo e terroristi islamici che dal gennaio 2004 ha provocato quasi 7.000 morti e oltre 11.000 feriti tra buddisti e musulmani.
Gli stessi dubbi e timori sono espressi dai filippini quando si dichiara l’intenzione di spostarsi a Mindanao. La grande isola nel sud di questa nazione arcipelago, un tempo non lontano rifugio dei pirati, da oltre dieci anni è teatro d’attentati e rapimenti. L’ultimo si è compiuto il 7 ottobre. La vittima è l’italiano Rolando Del Torchio, ex missionario e cooperante che aveva aperto una pizzeria nel sud di Mindanao.
Le cattolicissime Filippine e l’ultrabuddista Thailandia hanno in comune un conflitto subnazionale che affonda le sue radici nella richiesta d’autonomia. “Il problema è lo stesso che si crea ovunque tra gli esseri umani ed è quello delle tre ‘R’: razza, religione, risorse”, dice al Foglio un docente dell’Islamic College di Yala. Problema che in entrambi i casi è aggravato dalla povertà, dalla corruzione dei funzionari pubblici e dall’intervento di gruppi paramilitari a sostegno delle forze governative.
Tra le due situazioni, tuttavia, c’è una profonda differenza. Nelle Filippine, dopo l’accordo di pace col governo stipulato dal Moro islamic Liberation Front, operano il Bangsamoro islamic Freedom Fighters e quello di Abu Sayyaf. L’obiettivo è stabilire uno stato islamico che dovrebbe far parte di un Califfato esteso su tutto il sud-est asiatico musulmano. Inoltre, come ha dichiarato un esperto d’intelligence filippino, “l’Isis sta reclutando numerosi seguaci” nei gruppi che operano a Mindanao.
In Thailandia, invece, le rivendicazioni sono soprattutto d’ordine autonomistico e rispetto dell’originaria cultura malay. Secondo un rapporto del dipartimento di stato americano, “non c’è diretta evidenza di collegamenti operativi tra i gruppi insorgenti etno-nazionalisti nel sud della Thailandia con l’Isis o altre reti terroristiche internazionali”. Giudizio ufficialmente condiviso dal governo di Bangkok. “L’idea che agenti di al Qaida siano presenti nell’area è priva di fondamento”, ha detto una fonte del Foglio. Ammettendo, però, che “molti musulmani locali hanno frequentato scuole islamiche in Indonesia, Pakistan, Arabia Saudita, nei paesi del medio oriente e sono tornati indottrinati”.
In realtà, come sembrano dimostrare le indagini sull’attentato al tempietto di Erawan a Bangkok, i collegamenti transnazionali sono più di carattere mafioso che religioso. Quantomeno indicano una sempre maggiore contaminazione tra organizzazioni criminali e terroriste. Accade anche nelle Filippine, dove l’obiettivo dei gruppi terroristici, più che lo stato islamico, sembra il riscatto.
Laos, Cambogia e Vietnam
I paesi del sud-est asiatico che divennero le tessere comuniste nella teoria del domino anni Settanta oggi sono estranee a un potenziale domino islamico. In Laos come in Vietnam, lo stesso Sangha, la comunità buddista, ha scarso impatto sociale e politico. Il partito continua a promulgare leggi che regolano la professione di fede. In Vietnam è passata una legge secondo cui “l’abuso” religioso è un crimine contro la sicurezza nazionale. E’ improbabile che le minoranze islamiche possano rappresentare un problema. Solo in Cambogia il governo del primo ministro Hun Sen tempo fa ha espresso il timore che la minoranza musulmana Cham (d’origine vietnamita) sia una minaccia per la sicurezza nazionale.
Malesia e Indonesia
“Può sembrare una città del Golfo Persico: è il prezzo da pagare alla finanza islamica”, ammette un funzionario di Putrajaya. La nuova capitale amministrativa malesiana, 25 chilometri a sud di Kuala Lumpur, è un centro ipertecnologico d’edifici che incorporano tutte le architetture islamiche, dal Turkmenistan al Marocco, in stile contemporaneo.
La Malesia cerca di contenere la diffusione dell’estremismo con compromessi e concessioni. Almeno con le lobby della maggioranza musulmana, che sostengono il primo ministro Najib Razak a condizione che le favorisca. Se n’è avuta dimostrazione recentemente, quando il principale partito d’opposizione, d’ispirazione nazionalista-malay, ha scelto di non unirsi alle manifestazioni dei partiti alleati delle minoranze cinesi e indiane che chiedevano le dimissioni di Najib, accusato di corruzione. Al contrario: quella protesta è stata definita una cospirazione anti-malese e solo il deciso intervento dell’ambasciatore cinese in Malesia ha evitato che si ripetessero gli scontri razziali che nel 1969 portarono al massacro di centinaia di cinesi.
Compromessi e concessioni, tuttavia, si sono rivelati un’arma a doppio taglio. Il ministro dell’Interno ha dichiarato che “la minaccia terroristica in Malesia ha raggiunto un nuovo livello, con crescenti connessioni tra i foreign fighters e militanti interni, che cercano di influenzare la politica nazionale e raccogliere fondi”. Si è addirittura scoperto che l’obiettivo di una cellula islamica erano proprio i palazzi di Putrajaya.
Alla fine il premier Najib ha cercato equilibrio in occidente. La Malesia è divenuta un membro della coalizione guidata dagli Stati Uniti per contrastare l’Isis (con Singapore è l’unico altro stato dell’Asean a farne parte) e nel gennaio prossimo ospiterà una conferenza per studiare “una risposta regionale al terrorismo”. Nel frattempo, Najib sembra aver perso il sostegno dei sultani malesi, che si considerano i guardiani della cultura e della religione.
“Era un anak kampung Menteng Dalam, un ragazzo del kampung di Menteng Dalam”, dice il vecchio Coenraad, sindaco di quel quartiere alla periferia di Jakarta. “La vita era difficile, ma questa era una comunità di brava gente, tollerante”. Coenrad parla di Barry Soetoro, com’era conosciuto, col cognome del patrigno indonesiano, Barak Obama. Obama visse a Jakarta dal ’68 al ’71. Allora l’Indonesia era governata da un dittatore, devastata da conflitti interni, al collasso economico. Oggi è presa ad esempio di democrazia, non solo per il mondo islamico ma per tutta l’Asia. Tanto più dal luglio 2014, quando è stato eletto presidente Joko “Jokowi” Widodo, il primo a non aver alcun legame con il generale Suharto, il dittatore al potere dal 1965 al 1998.
Il governo di Jokowi è promotore di una legge che promuove la tolleranza e la libertà religiosa, caso unico nel mondo islamico. La grande maggioranza dei 206 milioni di musulmani indonesiani (l’87 per cento della popolazione) non dovrebbe opporsi: hanno la reputazione di moderati al limite della laicità, tanto da convivere senza tensioni con 23 milioni di cristiani. Tra il 1990 e il 2004 questo clima di rilassata moderatezza fu sconvolto dagli attentati della Jemaah islamiyah, legata ad al Qaida, che culminarono nel 2002 a Bali con l’attentato che provocò 202 morti. Negli anni seguenti sembrò che la polizia e l’intelligence indonesiana avessero ripreso il controllo. Almeno sino al 2014, quando il comandante dell’antiterrorismo Saud Usman Nasution ha dichiarato che il numero delle reclute indonesiane dell’Isis era più che triplicato in pochi mesi. Con oltre 500 combattenti in Iraq e Siria, l’Indonesia dà all’Isis il maggior numero di uomini di tutto il sud-est asiatico. “Quando faranno ritorno alle loro case si ripeterà ciò che è accaduto al ritorno dei combattenti in Afghanistan e inizierà una nuova ondata di terrorismo”, ha avvisato un ex funzionario dell’intelligence. Ipotesi aggravata dalla presenza di circa 3.000 fiancheggiatori dell’Isis. In tale prospettiva diviene ancor più importante la prossima visita di Jokowi negli Usa, a fine ottobre. Chiederà il sostegno di Obama in materia di difesa e sicurezza interna. Sperando che il “ragazzo del kampung” lo ascolti.
Singapore e Brunei
In comune hanno le minime dimensioni, l’altissimo standard di vita, un forte controllo socio-politico e l’adesione al Trans-Pacific Partnership. Li distingue il modello. Singapore, la città-stato all’estrema punta della penisola malesiana, segue un modello confuciano. Il controllo è esercitato da un governo eletto democraticamente, benché il sistema sia stato definito di “democrazia illiberale” per i limiti a opposizione e informazione. Ma è anche un sistema dinamico, in evoluzione culturale e sociale. In questo scenario, popolato da cinesi (la maggioranza), malay, indiani e occidentali, il dialogo inter-religioso è di rigore. Proprio per questo Singapore teme le derive islamiche nell’area. Come ha dichiarato il primo ministro Lee Hsien Loong, la minaccia dell’Isis va presa “molto seriamente”. Non perché sia possibile un Califfato nel sud-est asiatico, ma perché lo è una base dell’Isis. Il governo ha predisposto un programma di “riabilitazione”, gestito dai leader islamici, per chi sia stato influenzati dal fondamentalismo. Tuttavia, ha dichiarato Lee: “Per quanto buono sia il nostro programma non c’è modo di identificare tutti quelli che siano stati portati sulla cattiva strada”. Per la legge di Singapore, quindi, qualsiasi forma di sostegno a movimenti estremisti, anche non violenta, è perseguita con la massima severità. E così, secondo un recente rapporto dell’intelligence, Singapore è entrata nel mirino possibile dell’Isis.
Il sultanato del Brunei, incuneato nella costa occidentale del Borneo sopra un mare di petrolio, non corre questo rischio. Dal primo maggio del 2014 è il primo stato asiatico ad adottare la sharia come codice penale. Prevede la lapidazione a morte per gli adulteri e l’amputazione per i ladri. “La legge fa parte della grande storia della nostra nazione” ha dichiarato il sultano Hassanal Bolkiah, al governo con poteri assoluti dal 1967. Il codice si applica solo ai musulmani (circa due terzi dei 420.000 abitanti), ma impone restrizioni alla libertà religiosa di tutti gli altri. Anche quella di esprimere opinioni religiose, o atee, di fronte ai musulmani. Quindi, lo scorso dicembre, è stato proibito il Natale. Nel senso che sono state proibite le decorazioni “esteriori” ed è stato vietato manifestare in pubblico ogni espressione che riguardi la festività: “Potrebbero offendere la aqidah (fede) della comunità musulmana”.