L'ultimo comunista della Germania est
Se ne va Gregor Gysi, il frontman della Linke partito della sinistra tedesca, spina nel fianco della socialdemocrazia. Se ne va l’uomo che ha scippato all’Spd uno dei suoi leader più carismatici, Oskar Lafontaine. Se ne va il politico che come nessun altro incarna la storia tedesca degli ultimi 25 anni e che meglio di chiunque altro ha saputo cavalcare l’onda della Wende, la svolta. Un tempo, quando ancora c’era il Muro, era l’avvocato dei dissidenti, poi, con l’unificazione, ha fatto il Robin Hood della povera gente. Se i suoi natali tutt’altro che comuni – i genitori erano funzionari di rango della Germania dell’est – possono avergli facilitato la carriera nella Ddr, proprio quella carriera è diventata nell’èra post Muro una palla al piede, ha gettato ombre sulla sua integrità morale, mai del tutto dissipate.
Gysi ha annunciato in luglio al congresso della Linke che lascerà il posto da capogruppo del partito (ma manterrà il suo seggio al Bundestag), e martedì è il suo ultimo giorno come leader della Sinistra. “E’ tempo di fare posto ai giovani”, aveva detto. A 68 anni era giusto fare un passo indietro, anche se non richiesto.
Gysi è stato il grande traghettatore della Sed, il partito unico della Ddr di cui lui era uno dei leader, dall’autoritarismo alla democrazia dopo la caduta del Muro. Un capolavoro a ben vedere. Attraverso varie mutazioni la Sed è confluita in Die Linke, la Sinistra, partito che oggi è presente in tutti i governi regionali eccezion fatta per i due più meridionali, la Baviera e il Baden-Württemberg. Con l’8,6 per cento di voti ottenuto alle politiche del 2013, la Linke è il primo partito di opposizione (i Verdi alle ultime politiche del 2013 hanno ottenuto l’8,4 per cento). Un successo che deve tutt’ora ai Länder dell’est, dove ha il maggior radicamento e ottiene circa il 20 per cento dei voti. E’ a est che la Linke si è cimentata con il governo. Dal 2002 al 2011 è stata partner di minoranza dell’Spd, governando Berlino sotto la guida del sindaco Klaus Wowereit. Oggi è in coalizione con i socialdemocratici nel Brandeburgo e, dal 2014, vanta anche il suo primo governatore: Bodo Ramelow in Turingia. A questi risultati Gregor Gysi, con il suo acume e la sua indole camaleontica, ha contribuito in maniera decisiva.
La cancelliera Angela Merkel, quando prese la decisione di passare dai laboratori di fisica ai banchi della politica, non volle più essere associata alla Ddr. Per la carriera che aveva in mente, era meglio essere considerata tedesca e basta. Questo spiega perché in tutti questi anni Merkel abbia evitato fare proposte indirizzate specificamente ai nuovi Länder, e perché abbia limitato al massimo le sue puntate a est, eccezion fatta per le campagne elettorali, visto che il suo seggio è ii Vorpommern-Rügen, ex Ddr. Gysi al contrario è sempre partito dalle sue radici. Non era stato in grado di riformare la Ddr dal suo interno (lui, come altri, ci aveva sperato tanto da entrare anche nella commissione incaricata di elaborare la nuova legge che avrebbe permesso ai cittadini della Ddr di viaggiare più liberamente), ma non ha mai voluto buttare alle ortiche i 40 anni di Ddr. Così, per far sopravvivere una certa idea di società egualitaria, pacifista, anticapitalista, ha sottoposto la Sed a diversi interventi di maquillage: prima la rinomina Pds (Partito del socialismo democratico), successivamente cancella la sigla Sed.
Nel 2005 un gruppo di sindacalisti e transfughi dell’Spd fondano nei vecchi Länder un nuovo partito, la Wasg, sigla che sta per Alternativa per lavoro e giustizia sociale. Nella Wasg entra anche Oskar Lafontaine, fino ad allora testa d’ariete dell’ala di sinistra dei socialdemocratici, ma da tempo rotta di collisione con l’allora cancelliere Gerhard Schröder e le sue riforme. La Wasg è il colpo di fortuna atteso da Gysi. Lo ha ammesso ancora in recente: “Senza la Wasg, la Pds non sarebbe mai riuscita a penetrare il muro di diffidenza degli elettori della Germania occidentale”. A ovest, infatti, la Pds era ancora considerata un partito legato alla Ddr e non era mai riuscita a superare la soglia di sbarramento del 5 per cento. La chimica tra Gysi e Lafontaine funziona e nel 2005 i due portano il nuovo partito, nel frattempo ribattezzato Die Linke, nell’emiciclo del Bundestag. L’Spd è furibonda, giura che mai si alleerà con i rossi. Un giuramento che inchioderà il partito al 20 per cento dei voti, lo legherà mani e piedi alla Grande coalizione con Angela Merkel, o lo relegherà sui banchi dell’opposizione.
[**Video_box_2**]I cavalli di battaglia di Gysi sono quelli tradizionali della sinistra: no alle guerre, denuncia del militarismo tedesco sotto forma di industria bellica (“La nostra industria degli armamenti è terza al mondo, questo significa che ogni conflitto è per noi fonte di guadagno”); denuncia delle disuguaglianze sociali (“Oggi appena l’1 per cento dei tedeschi detiene il 34 per cento della ricchezza nazionale”); della fame nel mondo (“18 milioni di persone muoiono ogni anno per malnutrizione, nonostante l’agricoltura sarebbe in grado di sfamare il doppio dell’attuale popolazione mondiale”). Gysi, come si vede da questi esempi, è un secchione che si documenta per poi tramortire l’uditorio di dati e fatti. Come capo del principale partito di opposizione ha avuto negli ultimi due anni l’onere di prendere la parola subito dopo la Kanzlerin, come prevede l’ordinamento del Bundestag: la soddisfazione che gli dava questo privilegio gliela si leggeva ogni volta sul volto. Ma anche ai colleghi deputati, indipendentemente dal partito di appartenenza, non dispiaceva questa regola. Un po’ di brio dopo le esposizioni pragmatiche e asciutte della Kanzlerin lo apprezzavano anche loro: Gysi è un oratore di razza, e non fosse altro che per questa dote il Bundestag lo rimpiangerà. Quando era il suo turno di prendere la parola, il Bundestag pareva attraversato da una lieve scossa. Lo mostra bene uno dei suoi ultimi interventi, a settembre, quando Gysi non si è smentito e non ha rinunciato a qualche gag. “Presidente, signore e signori – aveva esordito – : giusto per non alimentare false speranze, vi anticipo che questo non è il mio ultimo discorso, mi dovrete sopportare un’altra volta. Mi sembrava un avvertimento doveroso, per evitarvi già oggi un’inutile radiosità”. Più avanti, riferendosi al rifiuto del governo polacco di accogliere una quota di profughi ha detto: “A Varsavia si sostiene che la Polonia è poco adatta ad accogliere profughi musulmani. Come si sa, la Polonia è un paese profondamente cattolico. E allora mi chiedo com’è che gli devo spiegare una volta ancora il Discorso della montagna”.
L’oratoria è sempre stata il forte di Gysi, che non a caso aveva intrapreso, nella vita precedente, la professione dell’avvocato. Nel 1970 si era laureato in Giurisprudenza alla Humboldt Universität di Berlino Est e già l’anno successivo aveva iniziato a esercitare la libera professione. Un privilegio alquanto raro nella Ddr, forse accordatogli anche per il suo background familiare. Il padre Klaus Gysi era entrato nel Partito comunista tedesco già nel 1931, anche la madre Irene Lessing era iscritta alla Kpd. Durante la guerra entrambi avevano fatto parte della resistenza tedesca. Successivamente il padre era stato ambasciatore della Ddr , ministro delle Politiche culturali e segretario di stato nel dipartimento per le questioni ecclesiastiche. Klaus Gysi ha lavorato, sotto il nome di copertura Kurt, anche come informatore per la Stasi. La madre, invece, era diventata un alto funzionario per le politiche culturali, coordinava gli scambi internazionali ed era stata nominata responsabile per la Germania orientale dell’International Theatre Institut. Un entourage famigliare al quale appartiene anche Doris Lessing. Il futuro premio Nobel per la Letteratura aveva infatti sposato in seconde nozze Gottfried Lessing, il fratello di Irene, madre di Gregor.
Come avvocato, Gysi difende alcuni dei più noti dissidenti della Germania dell’est: lo scienziato Robert Havemann, il filosofo e sociologo Rudolf Bahro, lo scrittore Rudolf Fuchs, la pittrice e attivista Bärbel Bohley. E’ grazie a questi processi se il suo nome comincia a essere conosciuto anche fuori dalla Ddr. Ma dopo la caduta del Muro, proprio l’aver difeso questi dissidenti diventerà il principale capo d’accusa contro di lui. Ben presto iniziano, infatti, a circolare voci su una sua collaborazione con i servizi segreti della Ddr. Vengono avviate indagini, e Gysi deve sottoporsi a diversi interrogatori. Nulla riuscirà a inchiodarlo inequivocabilmente, ma nemmeno a scagionarlo del tutto. Secondo il rapporto finale della Commissione parlamentare per l’immunità, Gysi sarebbe stato tra il 1975 e il 1986 un informatore della Stasi con il nome in codice Notar. Sempre secondo la Commissione, Gysi si sarebbe servito della sua posizione di avvocato difensore per carpire la fiducia dei suoi assistiti (in particolare di Havemann) per convincerli a cessare la loro attività anti regime. Nella sua replica, Gysi ha sempre negato di aver lavorato contro le persone di cui aveva assunto la difesa. Ammette, questo sì, di aver cercato una cooperazione con la Procura generale e il Comitato centrale del partito, “ma esclusivamente nell’interesse e nella piena consapevolezza dei miei assistiti”. Ma nemmeno la difesa del figlio di Havemann, Florian – “Indipendentemente dalla questione se il signor Gysi sia stato o no un informatore, domanda alla quale non sono in grado di rispondere, posso però affermare che ha agito con il pieno consenso e secondo le indicazioni di mio padre” – è riuscita a fugare le ombre della sua biografia. Non da ultimo perché la moglie di Havemann ha invece sempre sostenuto che Gysi era un collaboratore del regime.
Quello del collaborazionismo non è però l’unico sospetto che pesa su di lui, c’è anche quello di aver fatto scomparire il patrimonio della Sed. Era stato Gysi a convincere i compagni di partito a conservare in parte il vecchio nome del partito unico, con la formula Sed-Pds. Una scelta non dettata da motivi nostalgici, ma da ragioni giuridiche: un nuovo nome privo di qualsiasi riferimento alla Sed avrebbe comportato il sequestro del patrimonio del partito, mettendo così in pericolo anche l’esistenza del nuovo. Si trattava di un patrimonio cospicuo, circa 6,2 miliardi di Ddr Mark (pari, più o meno a 1 miliardo di euro). La strategia si rivela vincente, non fosse che a un certo punto quel patrimonio scompare nel nulla, e solo nel 2010 ne viene rinvenuta una parte nella Bank Austria). Anche in questo caso tra i sospettati c’è Gysi, molti indizi sembrano condurre a lui. Indizi che ancora una volta non si trasformano in prove inoppugnabili.
Oltranzista, fondamentalista, Gysi non lo è mai stato. Il ruolo del radicale l’aveva lasciato a Lafontaine (e ancora oggi l’ala più radicale del partito è composta prevalentemente da tedeschi dell’ovest). L’indole camaleontica e la sua verve gli hanno invece sempre reso facile adattarsi al corso del tempo. Le svolte repentine le lascia agli altri. Così al congresso di luglio a Bielefeld, già tutto compreso nella sua veste di elder stateman, Gysi ha raccomandato ai suoi di non adagiarsi nel ruolo dell’opposizione a vita. Ha sottolineato la necessità del compromesso, anche perché, spiegava, il 10 per cento dei voti sono solo il 10 per cento e non il 50 per cento. Detto altrimenti: “Non siamo nella posizione di rivoluzionare il mondo, ma possiamo contribuire a cambiarlo in meglio”. Anche la richiesta di uscire dalla Nato, fino all’altro ieri un cavallo di battaglia del partito, è da rivedere, spiegava Gysi, perché è più facile combattere da dentro il sistema. Lo stesso vale per i servizi segreti, inutile chiederne l’abrogazione, meglio tenerli sotto stretto controllo: “E chi meglio di noi dell’est è in grado di farlo?” aveva aggiunto con il suo noto sorriso beffardo. E infine, basta demonizzare il capitalismo: “Se vogliamo restare socialisti dobbiamo spiegare cosa ci disturba di questo sistema e perché, e cosa invece (e perché) non solo non ci disturba, ma ci sta addirittura bene. Bisogna impegnarsi a eliminare gli elementi negativi del capitalismo. E’ giusto combattere con la forza una dittatura economica. Per poterla abbattere c’è bisogno di una rivoluzione. Noi però viviamo in una democrazia politica e dunque dobbiamo perseguire la via della trasformazione pacifica. Il capitalismo può far nascere un’economia efficiente e produttiva… Quello che non va, è che il capitalismo metta al primo posto il profitto. Se un farmaco per una malattia rara non conviene economicamente, non viene prodotto… Questi sono gli elementi da eliminare. Dobbiamo allearci con la media imprenditoria. Solo così possiamo con i fatti imbrigliare lo strapotere delle banche… Quella con la media imprenditoria non può però essere una liaison puramente utilitaristica. Dobbiamo essere seri e non far sorgere in loro il dubbio che li vogliamo solo soffocare con le tasse…”.
[**Video_box_2**]Ascoltando questo Gysi, veniva da chiedersi se fosse stato folgorato o se aveva preso esempio da Joschka Fischer, che nel maggio del 1999 aveva sfidato l’opposizione interna dei Verdi (sacchetti di colore lanciati contro di lui) per portare infine il partito a votare a favore dell’intervento Nato nei Balcani. Oppure, chi ascoltava poteva essere assalito dalla sensazione di un viaggio nel tempo, di un traghettamento nella Bad Godesberg del 1959. Lì, durante lo storico congresso dell’Spd, le giovani leve (tra queste Willy Brandt e Helmut Schmidt) dicevano definitivamente addio all’ideologia massimalista perorata dai grandi vecchi e si aprivano all’economia di mercato. C’è però una grande differenza rispetto alla svolta di Fischer e prima ancora dell’Spd di Bad Godesberg: chi allora aveva perorato la causa di una svolta, si era poi rimboccato le maniche e aveva aiutato il partito a incamminarsi lungo il nuovo percorso. Gysi invece ha portato in dono ai suoi un viatico e concluso con le seguenti parole: “Ora tocca a voi tirarne fuori il meglio”.
Gysi lascerà la guida del suo gruppo parlamentare giusto dieci giorni dopo i grandi festeggiamenti per il 25esimo compleanno dell’unificazione. Può essere un caso. Ma lui stesso non ha mai negato una certa indole vanitosa. In una delle ultime interviste televisive, rispondendo alla domanda come mai, con lui, dopo la dipartita di Lafontaine non vi fosse più stato un tandem a capo del gruppo parlamentare (come previsto peraltro dallo statuto del partito) aveva risposto senza esitazione alcuna: “Beh, sanno bene quel che valgo”.