Se questo è un deal
New York. Giusto qualche ora prima che il Parlamento iraniano approvasse l’accordo nucleare raggiunto a luglio, il regime ha fatto capire cosa pensa del deal lanciando Emad, un missile teleguidato di nuova generazione che supera in gittata e sofisticazione lo Shahab-3 testato lo scorso anno. I test missilistici, esibiti con enfasi e talvolta goffamente ingigantiti con Photoshop, sono un classico della politica iraniana, ma questa volta c’è un accordo nucleare che limita lo sviluppo di vettori balistici. Qualche giorno dopo la firma di Vienna, anche il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione che bandisce lo sviluppo di “missili costruiti per portare armi nucleari”. Teheran, dal canto suo, ha “sempre dichiarato esplicitamente che non scende a compromessi sulla sicurezza nazionale e sulle capacità missilistiche”, come ha detto uno dei negoziatori del deal. Non è chiaro se Emad violi la lettera dell’accordo con l’occidente, ma il suo spirito non se la passa tanto bene se Teheran continua a sviluppare nuovi missili e il ministro della Difesa, Hossein Dehghan, si fa beffe dei patti internazionali: “Non abbiamo bisogno del permesso di nessuno per rafforzare le nostre capacità missilistiche a scopo di difesa”, ha detto all’agenzia semi ufficiale del regime. L’ambiguità del testo sullo sviluppo missilistico era uno dei punti più contesi fra i negoziatori. L’Iran non era disposto a scendere a patti su questo aspetto, mentre gli americani lo giudicavano una condizione necessaria per trovare un accordo, tanto che il segretario alla Difesa, Ash Carter, al Congresso ha detto esplicitamente che non avrebbe lasciato all’Iran alcun margine di manovra per quanto riguarda la costruzione di nuovi missili.
Gli americani infine hanno ceduto, accettando un testo che lascia spazio all’interpretazione. Domenica il regime ha deciso di abbracciare l’interpretazione dei falchi, gli stessi che non hanno votato l’accordo e hanno coperto di insulti e minacce parlamentari e membri del gabinetto che hanno difeso il grande deal che toglie il paese dal giogo delle sanzioni. Finora l’unica concessione fatta dagli iraniani è il limitatissimo accesso degli ispettori dell’Agenzia atomica al sito di Parchin, dove comunque i controllori dell’accordo dovranno fare affidamento in larga parte su informazioni e campioni forniti dal regime, e non raccolti in modo indipendente. Come se non bastassero le provocazioni balistiche e le aperture di facciata, domenica è arrivata la notizia della condanna di Jason Rezaian, il giornalista del Washington Post detenuto per quasi un anno e mezzo con l’accusa di spionaggio. Per almeno cinque mesi Rezaian è stato tenuto in isolamento. Il tribunale di Teheran non ha reso pubblica la pena né ha specificato per quali dei capi d’imputazione è stato condannato. I famigliari del giornalista hanno chiesto spiegazioni all’ufficio del giudice, ma è stato detto loro che non c’era un traduttore disponibile.
[**Video_box_2**]“Una oltraggiosa ingiustizia”, ha commentato il direttore del Washington Post, Martin Baron, che ha mosso qualunque leva politica e diplomatica per scarcerare Rezaian. Nemmeno l’intervento diretto di Barack Obama ha sbloccato la situazione. Il mese scorso il presidente iraniano, Hassan Rohani, ha fatto una vaga apertura alla scarcerazione del giornalista, suggerendo, tanto per cambiare, un accordo in cui la prima mossa tocca agli Stati Uniti, poi si vedrà. Teheran pareva disposta a uno scambio di prigionieri, a condizione che Washington facesse la prima mossa liberando detenuti iraniani, ma la condanna di Rezaian dopo mesi di stallo e silenzio dei giudici non è la base di partenza ideale per trovare un accordo. Così come i missili a lunga gittata non sono un segnale particolarmente promettente per chi già festeggiava la pace nucleare.