Europa, ti devo parlare
La Brexit è come un minaccioso “ti devo parlare” che aleggia da anni su Londra e Bruxelles. La coppia anglo-europea è un po’ in crisi, parecchio infelice, ma non si può dire che il matrimonio sia finito. Si tratta di ridefinire qualche regola, di mostrare un po’ di collaborazione reciproca e poi si può anche procedere: si fingerà qualche sorriso, chi è che non lo fa? Ma da quando il “ti devo parlare” ha preso le dimensioni di un referendum da tenere, nel Regno Unito, entro il 2017 – l’idea è stata del premier conservatore David Cameron: chissà se si è già pentito –, da quando i toni e i temi della conversazione sono diventati di dominio pubblico, da quando si è deciso che sarà il popolo sovrano britannico a decidere (e si sa quanto siano euroscettici gli inglesi, e quanti pochi sondaggi riescano a imbroccare: sarà un tormento), da quando si sono formate tifoserie contrapposte e agguerrite, il timore che il matrimonio sfugga al controllo degli sposi è sempre più alto.
Tanto per cominciare, a Bruxelles – dove il clima è molto collaborativo, soltanto i negoziatori a livello “tecnico”, ha scritto il Guardian, sono esausti: si riuniscono dal luglio scorso, non sanno mai che cosa dirsi – la domanda più ricorrente è: ci devi parlare, caro Cameron, l’abbiamo capito, ma di che cosa esattamente? Nello scorso fine settimana, i giornali britannici hanno fatto trapelare le quattro richieste che Londra vorrebbe presentare domani al vertice dei capi di stato europei: sono i punti attorno cui ruota il negoziato, perché tutta la campagna europeista, di cui fa parte anche il governo conservatore, si fonda sul presupposto che le cose devono comunque cambiare, che il rapporto tra l’Europa e il Regno Unito non può rimanere come è adesso. Se si portano a termine un buon negoziato e delle buone riforme europee, si resta insieme: altrimenti la Brexit è e sarà inevitabile.
Downing Street non ha confermato nulla di quel che è trapelato sui media: il governo ha paura che il foglietto delle sue pretese finisca per l’appunto in mano alla stampa, e già la chiacchierata è difficile di per sé, figurarsi se attorno parlano tutti. Così, al momento, le richieste di Londra sono ancora in forma semiufficiale, e questo non fa che innervosire sia Bruxelles sia le tifoserie: è difficile uscire dalla retorica se non si sa di che cosa si andrà, nel concreto, a discutere. Il Financial Times ha raccolto le testimonianze di molti diplomatici europei che insistono: diteci su che cosa verterà il negoziato, altrimenti non si riuscirà a ottenere un risultato vantaggioso per tutti. La situazione ha un che di paradossale: Cameron non vuole la Brexit, l’Europa non vuole la Brexit, eppure si sta creando proprio un clima da Brexit.
Secondo quanto è stato scritto, le richieste prevedono: la rassicurazione formale da parte di Bruxelles del fatto che il Regno Unito non farà mai parte di un superstato europeo; una dichiarazione in cui si dica che l’euro non è la moneta dell’Ue, ma che l’Ue prevede più monete; la possibilità che gruppi di Parlamenti nazionali possano bocciare le proposte di direttive fatte dalla Commissione europea; una riorganizzazione dell’Ue in modo che non ci sia un superpotere dei diciannove membri della zona Euro su tutti i ventotto membri. Se così fosse, si tratterebbe di una serie di richieste per lo più simboliche, anche se il punto dirimente è procedurale: è necessario modificare i trattati? Se la risposta è sì, il negoziato può anche essere considerato morto. Al momento nessuno in Europa si sogna di mettere mano ai trattati – vi ricordate che anni di strazio identitario sono stati quelli delle ratifiche dei trattati a livello nazionale? La via di mezzo accettabile è l’aggiunta di protocolli ai trattati esistenti, in modo che Londra sia sicura di essere ascoltata, e la sopravvivenza europea non sia troppo messa in discussione.
Il problema, come spesso accade in Europa, è il tempo. Secondo alcune fonti, Cameron non ha ancora preparato la lista dei temi da negoziare, mentre a Bruxelles si dice che ci vuole almeno un mese da quando le richieste sono presentate a quando si può iniziare a discuterle: per avviare il negoziato a dicembre, e magari farsi un regalo d’amore per Natale, Cameron deve affrettarsi. I funzionari europei si lamentano del fatto che non ci sono stati briefing di alcun tipo, e non si sa se fa più preoccupare il fatto che il processo possa essere tenuto segreto o il fatto che gli inglesi non abbiano idea di che cosa infilare nella dannata lista. Nell’incertezza, a Bruxelles si finge una pazienza rassicurante, e a Londra si litiga a ogni indiscrezione.
Le tifoserie si sono organizzate. Negli ultimi giorni i due blocchi contrapposti – “in or out” o “stay or leave” – si sono presentati al pubblico, con le loro star di riferimento e i loro programmi. La campagna “Britain Stronger in Europe” è guidata da Stuart Rose, ex capo di Marks & Spencer, ed è sostenuta da tre ex primi ministri: i laburisti Tony Blair e Gordon Brown, e il conservatore John Major. Il mondo del business è quasi del tutto a favore della campagna per restare in Europa: Mike Rake, presidente della compagnia di telecomunicazione Bt, ha detto che il mondo delle aziende ha “il dovere, l’obbligo e il diritto” di spiegare che danni la Brexit potrebbe causare agli investimenti nel Regno Unito. La Confederation of British Industry (Cbi), che rappresenta circa 190 mila aziende britanniche, ha più volte spiegato che l’isolamento politico renderebbe il paese più povero: per essere cittadini globali, gli inglesi non possono ritirarsi dentro ai loro confini nazionali. Numeri alla mano, i sostenitori dell’Europa dimostrano che il paese sarebbe più povero da solo, e nel frattempo cercano di non farsi scippare il tema del patriottismo: è proprio perché teniamo alla nostra patria e alla nostra identità, dicono, che vogliamo rimanere nell’Ue.
Se la cosiddetta “In Campaign” è coesa – resta da capire che cosa farà il gruppo europeista guidato dall’ex ministro laburista Alan Johnson, ma molti dicono che confluirà comodamente sotto l’ombrello di “Britain Stronger” – nel campo del no ci sono due gruppi che si contendono la leadership dell’euroscetticismo: “Vote Leave” e “Leave.eu”. La campagna “Vote Leave” è stata lanciata il 9 ottobre, è bipartisan, ed è guidata da Matthew Elliot, fondatore di Tax Alliance, e da Dominic Cummings, ex consigliere speciale del ministro conservatore Michael Gove. “Vote Leave” raccoglie tre gruppi principali: “Conservatives for Britain”, che ha come presidente Nigel Lawson, cancelliere dello Scacchiere di Margaret Thatcher, e come altra star Norman Lamont, cancelliere dello Scacchiere di Major, che sostiene sia necessario iniziare a prepararsi al divorzio, perché Cameron è bravo, ma con l’Europa non si può proprio trattare. Il secondo gruppo è “Business for Britain”, la costola euroscettica del mondo del business, che dice che bisogna essere pronti all’uscita: ha pubblicato di recente un rapporto di mille pagine, che tutti citano e che pochi hanno letto, dal titolo “Change or go”, in cui suggerisce al governo quali riforme richiedere all’Europa. Il terzo gruppo è “Labour Leave”, creato e sostenuto da due parlamentari laburisti molto solitari: il Labour è, a meno di cambi repentini impartiti dalla leadership di Jeremy Corbyn (del tutto possibili), a favore di una membership continuativa del Regno Unito nell’Ue.
La campagna “Leave.eu” è stata fondata da Aaron Banks, finanziatore del partito indipendentista Ukip, e si definisce “l’organizzazione grassroot che cresce più in fretta di tutto il Regno Unito”: avrebbero aderito 175 mila persone da quando è stata lanciata ad agosto (allora si chiamava “The know”). Fino a domenica, “Leave.eu” aveva il completo ed entusiasta sostegno del leader dell’Ukip, Nigel Farage, ma qualcosa dev’essere cambiato se Farage ha dichiarato di sostenere entrambe le campagne euroscettiche e di sperare in una loro sinergia per poter ottenere il risultato comune: uscire dall’Europa. Douglas Carswell, l’unico rappresentate dell’Ukip alla Camera dei Comuni (è un ex conservatore), ha deciso di rompere con “Leave.eu” e di fare campagna con “Vote Leave”: abbiamo bisogno di alleati in Europa, ha scritto Carswell sul Telegraph, non possiamo essere soltanto burberi e maleducati.
Quando Cameron fisserà infine la data del referendum – entro il 2017: meglio prima che dopo, dicono gli esperti – la Commissione elettorale designerà ufficialmente una campagna per l’in e una per l’out, e ognuna di queste avrà a disposizione sette milioni di sterline da spendere per la propria causa: secondo l’Economist saranno scelte “Britain Stronger in Europe” e “Vote Leave”, che infine assorbirà “Leave.eu”.
[**Video_box_2**]Gli europeisti sperano che il cannibalismo tra euroscettici giochi a loro favore, ma contare sui problemi degli altri non è mai una strategia vincente: anzi, gli europeisti hanno già il problema di essere considerati “quelli dell’establishment”, incapaci di comprendere quali sono le esigenze del paese e quindi negoziatori mediocri. E’ lo schema scozzese: i ragionevoli erano per l’unione ma fino all’ultimo sono stati percepiti come lontani manipolatori pronti soltanto a minacciare i “quitters”, quelli che volevano separarsi (non pronunciatela mai, la parola “quitter”: è peggio di un insulto). La posizione di Cameron sull’“E-word” è, se possibile, ancora più complicata. Il premier è stato un cauto euroscettico per buona parte della sua carriera, come ha riepilogato Ryan Heath di Politico Europe: quando si affacciò alla politica all’inizio degli anni Novanta, il Regno Unito era appena stato cacciato dal meccanismo di cambio europeo e Cameron pensava che l’Ue fosse un giochetto piuttosto irrilevante tra francesi e tedeschi; quando si candidò in Parlamento nel 1997, disse di essere contrario a un’unione monetaria europea; nel 2000 si fece classificare tra gli euroscettici dei Tory, anche se disse di non essere a favore di un’uscita dall’Ue; nel 2005, per neutralizzare il suo rivale nella leadership David Davis, disse di voler togliere i Tory dal gruppo dei Popolari europei. Ora il primo ministro deve trovare un equilibrio che sia allo stesso tempo accettabile per gli europei e accettabile per i ben più esigenti britannici, stando attento a portare a casa una riforma dell’Europa spendibile presso il suo elettorato che non finisca per alienare i suoi sostenitori in Europa, prima fra tutti la cancelliera tedesca Angela Merkel. Come ha spiegato un funzionario del governo inglese al Financial Times: “Non possiamo chiedere cinque torte e tornare a casa con tre”.
Secondo un’analisi di Open Europe, un think tank euroscettico, 69 parlamentari conservatori sono per uscire dall’Europa, 58 sono per rimanere: ci sono 203 swing voters da convincere. Se i pretendenti al trono di Cameron si posizionano su toni più euroscettici dei suoi – il sindaco di Londra, Boris Johnson, ha detto due giorni fa che sarebbe certo meglio rimanere in un’Europa riformata, “ma il prezzo per uscire non è mai stato tanto basso” – il premier continua a cercare una bozza di negoziato che permetta anche di superare i cavilli legali legati ai trattati. Ma come scrive Alex Barker sul Financial Times, “in un modo o nell’altro, la surreale ‘questione britannica’ potrebbe trovare una risposta soltanto con una forza politica brutale”. Che è un po’ la negazione della strategia adottata da Londra e Bruxelles finora, fondata sul dialogo e la collaborazione e la voglia di restare assieme. Ma il Regno Unito non è mai stato tanto affettuoso con l’Europa: “Nulla ha tirato fuori il talento per le mezze misure dei britannici quanto il progetto europeo – ha scritto Janan Ganesh sul Ft – Eravamo assenti quando è stato creato, poi ci siamo entrati, poi abbiamo votato sulla possibilità di lasciarlo, poi abbiamo concepito il mercato unico, poi abbiamo schivato la moneta unica, poi abbiamo spinto i confini dell’Europa verso est e ci siamo lamentati delle conseguenze, e ora stiamo cercando di rivedere i termini della nostra membership prima di votare ancora una volta sulla possibilità di andarcene”. Ma come nei matrimoni, c’è chi fugge e chi resta, e di solito chi fugge è anche quello che dice, tutto a un tratto, con tono grave e faccia da tempesta: dobbiamo parlare. “Si chiama perfidia – conclude Ganesh – E funziona”.