Il double standard degli islamici d'Australia quando si tratta di censurare Wilders
Nella spinosa questione del fanatismo islamista che travaglia ormai anche la societa' australiana, la caratteristica più sonora dei leader della comunità musulmana e' stata, sinora, il silenzio. Non che siano mancate loro le occasioni, le motivazioni, le circostanze per esprimersi. Tutt'altro.
Soltanto nell'ultimo anno, abbiamo avuto gli ostaggi del caffè Lindt nel centro di Sydney e l'esecuzione a sangue freddo di uno di loro da parte di Man Haron Monis, ufficialmente semi squilibrato, in realtà almeno semi sano, ex rifugiato iraniano fattosi islamista; i tanti adolescenti nati e cresciuti nel benessere di Sydney e Melbourne e partiti alla volta dell'Iraq e della Siria per arruolarsi nelle milizie del Califfo; Tarek Kamleh, il medico belloccio di Perth che compare regolarmente nei video propagandistici di Isis e proclama la sua militanza in favore dello Stato islamico invitando i colleghi a emulare la sua scelta; i numerosi raid delle forze dell'ordine nei sobborghi delle maggiori città australiane che hanno sventato attacchi terroristici imminenti.
Puntualmente, ognuno di questi avvenimenti è stato seguito da due processi paralleli e interdipendenti: da un lato, un collettivo processo di rimozione per cui poche, pochissime voci hanno osato sentenziare la certa appartenenza della parola Islam accanto alla parola "terrorismo", mentre la maggior parte dei media, della classe politica e dell'opinione pubblica si sono piuttosto preoccupati di ammonire i razzisti nostrani in malafede affinché non approfittassero delle circostanze per discriminare i musulmani d'Australia. E dall'altro lato, un'omertà che ha inghiottito il senso civico delle comunità islamiche ufficiali, che di norma si sono defilate, rilasciando raramente – e sotto pressione – soltanto qualche timida dichiarazione asciutta e vagamente moderata. Per poi richiudere alle loro spalle i cancelli delle moschee e dei centri culturali e degli uffici stampa e fare quello che fanno sempre per affrontare la crisi a loro interna: nulla.
Poi, però, e' arrivato il ragazzino del Jihad, Farhad Khalil Mohammed Jabar. Poco meno di due settimane fa, questo imberbe curdo iracheno, nato in Iran e appena quindicenne, dopo la preghiera in moschea ha ammazzato a colpi di pistola un pover'uomo impiegato nella sede della polizia di Parramatta, secondo cuore finanziario e demografico dell'area metropolitana di Sydney. E non frequentava, Farhad, un'oscura madrassa nascosta nell'anonimato della periferia. Pregava invece proprio nella grande moschea del quartiere, una delle maggiori sul territorio australiano, dove la sua radicalizzazione e conversione all'islamismo militante e terrorista si sono sviluppate e sono culminate con le pallottole nel cranio di un innocente ragioniere. La sorella, poco prima, era partita per la Turchia, prima tappa di un viaggio verso la Siria del califfo.
Soltanto quest'ultimo episodio di violenza ha infine colmato la misura. L'assassinio a sangue freddo di un padre di famiglia impiegato della polizia poco prima che il turno di lavoro terminasse in un pomeriggio qualunque a Sydney ha finalmente aperto la bocca all'Imam della moschea di Parramatta, Neil El-Kadomi. E ha dichiarato, l'Imam, che nel sermone del venerdì avrebbe detto chiaro e tondo ai fedeli che l'Australia e' un bel posto e ci si vive bene in fondo, e che quindi le sue leggi vanno rispettate e chi non e' d'accordo - e ha usato qui, curiosamente, la classica espressione attribuita ai presunti xenofobi e razzisti australiani - e' libero "di tornare da dove e' venuto".
[**Video_box_2**]Meglio di niente. Ma certo ancor poco, considerando che quasi nulla ha invece detto il dottor Ibrahim Abu Mohammed, Gran Mufti d'Australia. Il quale si è rifiutato di qualificare l'attentato come "terrorismo", spingendo lo stesso Imam Kadomi a un rarissimo sfogo che mette in luce tensioni e divisioni all'interno dell'ermetica comunità islamica. In un breve scontro verbale – in arabo – al margine di un incontro al massimo livello tra l'Imam, il Gran Mufti e Mike Baird, Premier del New South Wales, i due rappresentanti musulmani si sono beccati per poi concludere intimandosi l'un l'altro di tacere. Il Gran Mufti, si mormora, simboleggia in parte il problema di una leadership che ha perso il contatto con la realtà dei fedeli, e soprattutto con le giovani generazioni. Per usare le parole esasperate di Kadomi, "non parla neanche l'inglese lui".
Poco e tardi, ancora, se si considera che le manifestazioni anti americane e contro "l'aggressione occidentale" nei confronti dell'Islam e la partecipazione dell'Australia alle campagne aeree in Iraq o in Siria mobilitano di solito almeno parecchie centinaia di persone appartenenti alle comunità islamiche locali. E spesso, con tanto di cartelloni che invocano la guerra santa e la decapitazione degli infedeli e tutto il repertorio ideologico del classico islamista militante. A Sydney, non molto tempo fa, erano persino comparsi bambini vestiti di nero come i piccoli martiri di Hamas a Gaza, con slogan che inneggiavano al martirio e all'esecuzione di chiunque non si pieghi alla verità del Corano.
Bene dunque per l'onestà tardiva dell'Imam, che poveraccio si è trovato per le mani il ferro incandescente della prova schiacciante – l'attentatore che apparteneva alla sua moschea. In cui, certo, qualcosa non funziona come dovrebbe. Male, purtroppo, la latitanza della vox populi dei musulmani d'Australia.
A questo proposito, risuona di uno iato improvviso la tempestiva, decisa, e stranamente dispositiva presa di posizione dei leader della comunità islamica libanese, che proprio in questi giorni hanno ufficialmente chiesto al governo australiano di cancellare il visto concesso – dopo anni di tentativi e di rifiuti – a Geert Wilders, il politico olandese erede di Fortuyn e della sua strenua profezia anti islamica. Il presidente dell'associazione islamica libanese, Samier Dandan, si è rivolto direttamente a Malcolm Turnbull, il primo ministro, chiedendogli di dichiarare Wilders persona non grata e paragonandolo al caso di un rapper americano, Chris Brown, cui l'Australia ha negato il visto di recente a causa dei suoi guai con la legge per violenza domestica. Insomma Wilders sarebbe l'equivalente di un marito violento che rischia di fuorviare il pubblico australiano, e di corromperlo. Nel caso specifico, la presenza del politico olandese nel paese rischierebbe, sostiene Dandan, di "indisporre" la comunità islamica australiana, quando invece ne abbiamo bisogno per arginare la radicalizzazione dei suoi membri.
Un tentativo poco felice e poco ortodosso di ingabbiare la libertà di espressione e il libero dibattito in una democrazia occidentale, da cui anche Wilders proviene e in cui ha pieno diritto di cittadinanza; ma anche un paradossale e alquanto ironico paragone con il rapper sotto accusa per aver picchiato la compagna. Perché si da il caso che soltanto lo scorso fine settimana, a Melbourne, nelle aule di una prestigiosa università, la Deakin University, si sia tenuta una conferenza organizzata da un gruppo salafista radicale il cui leader, un musulmano indiano messo al bando da svariati paesi come il Regno Unito e il Canada, predica la pena di morte per gli omosessuali, la lotta violenta contro i cristiani, l'antisemitismo estremo, l'apologia e anzi l'ammirazione per la persona e il messaggio di Bin Laden, e udite udite - la violenza contro le donne, le mogli, la cui sottomissione andrebbe assicurata anche con la forza.
Nessuno, tra i leader della comunità islamica, ha sollevato obiezioni ai visti concessi ai fondamentalisti. Nessuno ne ha parlato. E così gli islamisti hanno serenamente ottenuto il diritto di sbarrare la porta ai pochi giornalisti recatisi all'università per curiosare tra sermoni e sure. In nome dell'antirazzismo multiculturale.
Ma se la comunità islamica non parla, l'Australia, dal canto suo, non vuol sentire. La stampa rimane in maggioranza aggrappata all'imprimatur corretto e antirazzista per cui Wilders viene definito un politico "di estrema destra" ed e' soggetto a una regola ben chiara - non se ne parli. E se proprio si deve, se ne parli male. E' la stessa regola, ma al contrario, che viene applicata ai fondamentalisti Islamici: se proprio bisogna parlarne, si sprechino i caveat, per scongiurare l'accusa di razzismo. Un po' come il regime dei visti - spalancato per i salafisti apologeti del terrore, e arcignamente centellinato per Wilders, eretico e scomunicato dal culto antirazzista.