Nulla come la Danimarca spiega quanto sono diversi Hillary e Sanders
Milano. Se la Danimarca arriva in un dibattito elettorale americano, vuol dire che la questione identitaria, nella sinistra e nelle sinistre, sta raggiungendo lo scontro finale. Al dibattito dei candidati democratici alle presidenziali del 2016, trasmesso dalla Cnn mercoledì sera, Hillary è stata bravissima: ironica, vigorosa, persino simpatica, e pure se sappiamo che la performance è il frutto di un calcolo preciso e di molto studio, si può dire che è stata addirittura spontanea. “Vincere” i dibattiti, si sa, non conta nulla, anzi, ti fa sentire forte e popolare quando magari hai solo avuto una serata di grazia, ma al morale dei clintoniani la sferzata di sorrisi della candidata ha fatto bene. Anche il suo rivale principale del momento, l’allegro e altrettanto energico Bernie Sanders, è stato molto bravo – e cavalleresco, quando ha detto che agli americani non importa nulla dello scandalo sulle email con cui la stampa tormenta la Clinton: lei gli ha stretto la mano, grata. I toni civili sono stati ostentati e sottolineati, come a dire: noi democratici non siamo come i repubblicani, che appena salgono su un palco tutti assieme (sono tantissimi) iniziano a sbraitare e a insultarsi. Ma la buona educazione non deve ingannare: quello tra la Clinton e Sanders è un conflitto di identità molto serio. E qui c’entra, appunto, la Danimarca.
Bernie Sanders, banalmente definito “il socialista” perché ha posizioni molto radicali, ha fatto un elogio dell’ormai consunto modello scandinavo. “Dovremmo guardare alla Danimarca, alla Svezia, alla Norvegia e imparare da quel che hanno ottenuto per la classe dei lavoratori”, ha detto, dopo aver spiegato come, nel resto del mondo, siano stati fatti esperimenti di successo per innalzare il tenore di vita delle famiglie e riempire il gap tra ricchi e poveri. Hillary ha risposto: viva la Danimarca, amo la Danimarca, ma gli Stati Uniti non sono la Danimarca – e questo è il punto centrale: la sinistra americana è davvero lontana dalla sinistra europea, e nonostante il tatticismo sterile di Hillary, lei è davvero molto lontana da Sanders (se proprio vogliamo essere puntigliosi: la Danimarca è lontana dal modello socialdemocratico, oggi c’è un governo di destra, i populisti hanno superato il 20 per cento alle ultime elezioni). La differenza l’ha spiegata la stessa Clinton: il socialismo non è un’opzione per l’America perché “faremmo un grande errore se ignorassimo quel che ha costruito la più grande middle class del mondo” – cioè il capitalismo, il sistema che ha fornito “opportunità e libertà nel nostro paese per le persone che vogliono creare piccole aziende e garantire un buon tenore di vita alle loro famiglie”. Come ha sottolineato Elizabeth Bruening su New Republic, l’approccio nei confronti della diseguaglianza, il grande tema su cui si scontrano le diverse scuole di pensiero della sinistra, è molto differente. Sanders si concentra, con dovizia di dettagli e di ardore, sulle politiche che possono ridurre la diseguaglianza, mentre Hillary punta sull’aumento delle opportunità, ripetendo di voler dare la possibilità a tutti di investire sui loro “God given talents”, esattamente come faceva suo marito Bill. Sanders vuole benefit universali, in modo che gli americani possano accedere, in egual misura, ai beni pubblici (non sono un capitalista, ha detto Sanders, e con me i ricchi pagheranno un sacco di tasse). Hillary vuole aumentare la mobilità sociale, dare la possibilità agli americani di iniziare un’attività, coltivare il celebre sogno americano. Sanders forse non sfigurerebbe in Danimarca (anche se non è nemmeno lontanamente vicino all’idea europea di socialismo), laddove Hillary sembrerebbe planata direttamente da Marte.
Se soltanto la Clinton non avesse ceduto al tatticismo, se non si fosse schierata contro il trattato sul libero scambio nell’area del Pacifico, rinnegando in un solo colpo la sua storia e la sua identità, sarebbe ben più credibile quando dice tutte le cose giuste sui sogni.