Il segreto del successo del Padiglione giapponese all'Expo di Milano
Se c’è un paese che l’Expo ha premiato quest’anno è stato il Giappone. E' innegabile che il riscontro in termini di visitatori ottenuto dal padiglione giapponese a Milano – fino a sette ore di coda per visitarlo e un obiettivo di due milioni di visitatori a manifestazione conclusa – ha testimoniato la forte attenzione del pubblico, dei media, e del mondo imprenditoriale italiano verso il Sol Levante. La prossima occasione sarà nel 2016, quando si celebrerà il 150° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Italia e Giappone. In realtà, i primi contatti tra i nostri paesi risalgono addirittura al Cinquecento. Basti pensare al momento in cui giunse in Giappone Alessandro Valignano - il gesuita italiano che invece di imporre ai credenti giapponesi la cultura occidentale, si adeguò egli stesso a quella asiatica - per comprendere quanto le basi del nostro rapporto con il Sol Levante siano particolarmente solide, e sempre ispirate al reciproco rispetto.
Nel 1885, mentre il Giappone - dopo due secoli di isolamento, il sakoku - si apriva al mondo con la restaurazione Meiji, certi italiani erano già presenti in quelle isole da diversi anni: non solo i “corallari” di Torre del Greco, ma anche i produttori di seta, i semai, che andavano ad approvvigionarsi periodicamente dei bachi giapponesi, per sostituire quelli italiani colpiti dalla pebrina, una malattia che impediva al piccolo insetto di produrre il prezioso filo. Un mercato milionario, che andava protetto. Perciò il 25 agosto del 1866 il comandante della corvetta italiana “Magenta”, Vittorio Arminjon, che quell’anno circumnavigava il globo, firmò a Yokohama, per conto dell’allora presidente del Consiglio Alfonso La Marmora, il primo “Trattato di Amicizia e di Commercio tra Italia e Giappone”. Negli anni difficili della guerra civile che attraversò il Giappone tra il 1868 e il 1869, portando infine alla restaurazione dell’Imperatore Meiji, i primi inviati diplomatici italiani dimostrarono di sapersi districare meglio di altri colleghi europei nella matassa dei rapporti di forza tra i clan in lotta. Mentre i francesi infatti continuavano imperterriti a sostenere lo Shogun, poi rivelatasi la parte perdente, il primo inviato italiano, Vittorio Sallier De la Tour, comprese subito le implicazioni del colpo di mano dei clan dell’ovest, e strinse rapporti con i sostenitori dell’Imperatore. Una scelta che si rivelò per l’Italia una benedizione: nel 1869, a guerra quasi conclusa, De la Tour accompagnato da un gruppo di commercianti di seta piemontesi fu il primo rappresentante occidentale a ottenere il via libera per visitare l’entroterra del Giappone, raggiungendo zone dove fino ad allora sarebbe stato impensabile avventurarsi.
I vertici giapponesi erano coscienti della differenza tra l’atteggiamento italiano e quello delle vecchie potenze coloniali, e a Tokyo il rapporto da pari a pari intavolato dal Regio Ministro Fé d’Ostiani, gli valse una fiducia sempre più stretta, tanto che gli venne persino chiesto di curare la preparazione del padiglione giapponese presso l’Expo Universale di Vienna del 1873, fin nella scelta di tutto ciò che doveva rappresentare il Giappone nella sua vetrina per il mondo. Incoraggiati dall’attivismo della diplomazia, a fine Ottocento aumentarono gli scambi tra Italia e Giappone nel campo delle arti e della cultura. Venne costituita a Tokyo nel 1876 una “scuola di belle arti e di architettura”, che per diversi anni assicurò la permanenza in Giappone di artisti, scultori, pittori e architetti italiani di altissimo livello: tra i più noti Edoardo Chiossone, incisore, che diede un volto alla moneta del Giappone moderno; l’architetto Giovanni Cappelletti che progettò il museo militare all’interno del santuario di Yasukuni; e poi lo scultore Vincenzo Ragusa, il pittore Antonio Fontanesi. Il coinvolgimento italiano nello sforzo di modernizzazione del Giappone ebbe un effetto speculare anche in Italia, dove aumentò la febbrile ricerca del nuovo esotismo da parte di un pubblico sempre più vasto. Tra gli appassionati non mancavano i nomi eccellenti. Lo stesso Gabriele D’Annunzio, destinato a divenire uno dei più noti protagonisti della passione italo-giapponese, contrasse a Roma il germe del japonisme, forse nel famoso negozio della Signora Beretta, in Via Condotti: “In quel periodo”, racconta, “utilizzavo il denaro senza riguardo. Quell’utilizzo smisurato di denaro era per comprare cose giapponesi. Appena vedevo qualcosa di giapponese passando davanti ai negozi di antiquariato, entravo a comprarle, senza badare al prezzo”. Difficile oggi immaginare quanto la politica asiatica italiana agli inizi del Novecento fosse limpida e spregiudicata: nell’agosto 1905, in pieno conflitto russo-giapponese, due corazzate italiane, acquistate a Genova dalla marina nipponica, si trovavano a Tsushima, pronte per la battaglia decisiva. E in quel momento, insieme alle due navi si trovava idealmente a Tsushima anche gran parte dell’opinione pubblica italiana. Infatti nel 1904 Emilio Salgari, sotto lo pseudonimo di “capitano Guido Altieri”, pubblicava un romanzo intitolato “L’Eroina di Port Arthur”, ambientato durante la guerra russo-giapponese. Nel racconto si percepiva chiaramente quanto lo scrittore parteggiasse per “il bravo e coraggioso giapponese” e per le sue forze armate “splendidamente organizzate, con marce meravigliose per celerità”. Il romanzo – peraltro destinato a rimanere l’unico lavoro di Salgari a tema giapponese – ottenne recensioni entusiastiche, un grande successo di pubblico, e una seconda edizione lo stesso anno. Nell’Italia che aveva raggiunto da poco l’unità, e che all’epoca si sentiva ingiustamente trattata come potenza di seconda classe, il piccolo e lontano Giappone che teneva testa al grande orso russo riscuoteva molta simpatia.
[**Video_box_2**]Il prossimo anno sarà un’occasione preziosa, quanto rara, per ragionare sulla nostra “politica asiatica”, e per individuare la specialità del rapporto Italia-Giappone che lo differenzia dagli altri. Attraverso i secoli, l’atteggiamento italiano nei confronti dei giapponesi è stato slegato dai tipici modelli di una visione euro-centrica. Questo è un elemento molto particolare, che oggi vale la pena di approfondire, non tanto per rammentarlo i nostri amici giapponesi, quanto per comprenderlo noi italiani. Così facendo scopriremo che quella del 1866 fu un’Italia dalla politica asiatica moderna, lucida e lungimirante, sviluppata in modo originale da italiani coraggiosi e appassionati dell’Asia, la regione del mondo che oggi è diventata la vera protagonista dello sviluppo globale.