Matrimoni con il drone
La mattina del 12 dicembre del 2013, un villaggio dello Yemen si prepara a celebrare un evento speciale. Il villaggio, un pugno di capanne senza elettricità né acqua corrente, circondato da un paesaggio brullo e collegato al resto del mondo solamente da una strada polverosa, si trova nel governatorato di al Bayda. La tribù degli al Thaisi accoglie quella vicina degli al Amri per festeggiare il matrimonio di due giovani. E’ l’ora del pranzo, l’ultimo che la sposa Warda al Thaisi consumerà con i propri parenti prima di partire per la sua nuova casa, scortata dalla famiglia del marito. Dopo il banchetto, un convoglio di 11 Toyota imbocca la strada per dirigersi verso l’abitazione degli sposi. Poco dopo, un primo missile buca il tetto di una delle vetture che procedono in fila indiana. In rapida successione, altre tre esplosioni colpiscono le auto che seguono. Tra le urla, dicono i testimoni, i sopravissuti si mettono in salvo e abbandonano la strada gettandosi nella polvere. “Abbiamo sentito una forte esplosione provenire dalla valle. I corpi erano irriconoscibili, sparsi ovunque. Le donne urlavano e pregavano”. Il bilancio finale è di 15 morti e ad attaccare il convoglio è stato un drone americano comandato dal Joint Special Operations Command (Jsoc), il dipartimento del Pentagono americano che per anni ha gestito gli attacchi aerei all’estero contro obiettivi sensibili. In un primo momento, gli americani valutano positivo l’esito dell’operazione; “pulito”, nel gergo usato a Creech, in Nevada, una delle basi da cui sono comandati i velivoli senza pilota: il bersaglio è stato centrato. L’obiettivo era Shawqi al Badani, militante di medio rango di al Qaida, ritenuto responsabile dell’attacco fallito all’ambasciata americana in Yemen nel 2012 e dell’uccisione di 56 persone nella capitale Sanaa con un’autobomba. Qualche ora dopo l’attacco, il Pentagono scopre però che Badani non è morto nell’operazione. Anzi, scopre che non si trovava nemmeno lì, al matrimonio. Il governo yemenita in un primo momento dichiara che il terrorista era sul convoglio di auto ma è riuscito a fuggire. La versione cambia a distanza di qualche mese: nessuno al matrimonio conosceva Badani. Il governo di Sanaa è costretto alla fine a riconoscere che si è trattato di “un tragico errore”. Ancora oggi, non è chiaro cosa sia andato storto e gli atti relativi all’operazione sono secretati. Dopo l’apertura di un’inchiesta interna al Pentagono, avviata solo dopo un anno, un generale dell’Air Force americana scopre che la Cia aveva espresso dubbi sulla presenza di Badani in quel luogo e a quell’ora ma che il Jsoc aveva deciso di ignorare il parere dei servizi segreti e di attaccare ugualmente. La mancanza di uomini sul campo ha poi reso impossibile capire cosa non abbia funzionato prima e dopo l’operazione.
Quello della provincia di Bayda non è il primo errore compiuto in combattimento dai droni americani. Gli Stati Uniti, impegnati nella guerra contro al Qaida nella Penisola araba (Aqap) con l’appoggio del governo alleato di Sanaa, sbagliano anche nell’agosto del 2012, quando un missile uccide un membro del clero nello Yemen orientale che aveva appena finito il suo intervento durante un incontro religioso in cui condannava al Qaida. Il Jsoc sbaglia ancora il mese successivo e colpisce un fuoristrada nei pressi di Radaa uccidendo 11 civili. Sono i mesi in cui monta la competizione con la Cia per la gestione del programma dei droni. A preoccupare l’Amministrazione americana è anche il fatto che gli strike non riescono a fermare l’arruolamento di nuovi jihadisti. Secondo il think tank New America Foundation, dall’inizio degli attacchi americani contro l’organizzazione terroristica del 2009 fino al 2013 il numero dei militanti estremisti è più che triplicato ed è passato da 200-300 combattenti a circa un migliaio. Ma secondo i dati riportati dal giornale online Intercept nel 2014, l’opposizione del popolo yemenita alla politica filoamericana del governo si Sanaa ha spinto 8.211 uomini a unirsi alla causa di al Qaida (sempre rispetto ai duecento iniziali). Il fallimento del Pentagono è certificato nel maggio del 2013, quando il presidente americano Barack Obama, in un discorso tenuto alla National Defence University, condanna gli errori compiuti fino a quel momento. “E’ un fatto che i nostri attacchi hanno causato vittime civili”, dice il presidente americano, che traccia nuove linea guida per le successive operazioni con i droni: “Dovrà esserci la quasi certezza che nessun civile sia ucciso o ferito” nell’attacco. Obama assegna così l’individuazione degli obiettivi sul terreno alla Cia e limita le responsabilità del dipartimento della Difesa alla sola esecuzione degli attacchi con i droni.
In Yemen, il problema dell’individuazione dei target al suolo si rinnova in questi mesi ed è uno dei motivi principali di una catastrofe umanitaria tra le più gravi del medio oriente. Alla fine del 2014, la setta sciita degli Houthi, con il sostegno dell’Iran e delle forze leali all’ex presidente Ali Abdullah Saleh, si è ribellata al governo sunnita e ha conquistato la capitale Sanaa. Lo scorso gennaio, i ribelli hanno costretto alla fuga il presidente Abd Rabbu Mansour Hadi. I paesi del Golfo Persico, l’Egitto, la Giordania e il Sudan hanno allora formato una coalizione per liberare lo Yemen dai ribelli sciiti e reinsediare Hadi alla guida del paese. Hadi si è rifugiato dapprima sulla costa sud, ad Aden, e poi in Arabia Saudita, per rientrare infine a settembre nella cittadina costiera affacciata sul mar Rosso, parzialmente liberata dai ribelli dopo l’intervento militare della coalizione dei paesi arabi. La coalizione ha impiegato le forze da sbarco degli Emirati Arabi Uniti per riprendere il controllo di gran parte di Aden e ha avviato bombardamenti massicci su tutto il paese per respingere l’avanzata degli Houthi.
Mousid al Taysi, uno dei parenti delle vittime del bombardamento del 2013, vicino a una delle vetture colpite dal drone americano
“Viviamo nella paura notte e giorno. I nostri bambini e le nostre donne non dormono”, dicono i residenti di Sanaa, una delle città più bersagliate dai raid. La guerra civile ha ormai assunto i connotati di un confronto più vasto tra l’Iran e le monarchie del Golfo, in cui l’America ha scarse possibilità di intervento: secondo Bruce Riedel, ex funzionario della Cia, in Yemen gli americani stanno ora pagando dazio per ottenere il tacito consenso di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti all’accordo nucleare con l’Iran, avallando una guerra che ormai si combatte da mesi strada per strada.
Il prezzo in vite umane è alto: secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, delle 5.239 persone uccise o ferite nel conflitto tra gennaio e luglio del 2015, circa l’86 per cento è composto da civili. Per i sauditi si tratta di danni collaterali dovuti alla tattica adottata dai ribelli Houthi che, dice l’esercito di Riad, si nascondono in centri densamente abitati. Secondo un report di Human Rights Watch dello scorso agosto, la coalizione araba tra aprile e luglio ha impiegato anche bombe a grappolo (fotografate dall’ong) per stanare i ribelli, uccidendo dozzine di civili in sette diversi attacchi nel governatorato di Hajja, nel nord-ovest del paese.
Dai primi mesi dell’operazione, gli Stati Uniti hanno garantito alla coalizione araba la propria collaborazione logistica e di intelligence. In un comunicato stampa dello scorso marzo, la Casa Bianca ha ufficializzato il proprio sostegno contro gli Houthi. Ad aprile, un funzionario del governo americano intervistato da Reuters ha riferito che il sostegno consiste soprattutto nella condivisione di informazioni di intelligence per l’individuazione dei target a terra. “Ma comunichiamo loro anche quali zone a nostro avviso sono da evitare, per scongiurare vittime civili”, ha aggiunto il funzionario. Sempre a marzo, il generale Lloyd Austin, capo del comando centrale americano, il Centcom, ha confessato tuttavia di non conoscere i reali scopi della missione araba in Yemen. Ha detto in un’audizione al Senato: “Non so nello specifico quali siano gli obiettivi della campagna saudita. Dovrei conoscerli per potermi esprimere sulle sue probabilità di successo”. Austin ha aggiunto che i sauditi avevano avvisato il Pentagono dell’inizio della guerra solo poche ore prima dell’avvio delle operazioni. Ma nonostante questo, dall’inizio dei bombardamenti il flusso di armi da Washington a Riad si è intensificato, come documentato da Micah Zenko in un’analisi del think tank Council on Foreign Relations. Gli Stati Uniti hanno autorizzato la consegna all’Arabia Saudita di sistemi missilistici per un valore complessivo 8,4 miliardi di dollari. Tra questi, anche bombe a grappolo, prodotte dall’americana Textron Systems Corporation. Il sottoammiraglio John Kirby ha definito la consegna “ammissibile”, “se le armi sono usate in modo appropriato e secondo le regole”.
Con l’aiuto americano, i bombardamenti della coalizione araba in Yemen – operazione “Rinnovo della speranza”, l’hanno chiamata i sauditi – aumentano di intensità ed estendono la loro portata. Ma la difficoltà di individuare i target al suolo con affidabilità resta. Il 28 settembre di quest’anno un raid aereo bombarda un’altra festa nuziale. L’attacco si verifica nel villaggio di al Wahijah, provincia di Taiz, sul mar Rosso, non lontano dall’antico porto di al Mokha. Secondo Mayaz al Hamadi, un medico di Mokha, i morti sono 131. “Molti feriti li abbiamo dovuti distendere sui pavimenti dell’ospedale. Non abbiamo i mezzi per gestire una cosa del genere”. E’ l’intervento armato con vittime civili più sanguinoso dall’inizio del conflitto yemenita. “Non esistono postazioni militari qui. Il posto di blocco più vicino è a tre chilometri”, riferisco i testimoni. Secondo le loro ricostruzioni, al matrimonio era presente, tra gli altri, un uomo vicino ai ribelli Houthi. La strage attira anche l’attenzione delle Nazioni Unite e il segretario generale Ban Ki-moon definisce l’episodio “una grave violazione del diritto umanitario internazionale”. Le autorità saudite però smentiscono ogni responsabilità e un portavoce della coalizione afferma che a colpire sono state le milizie attive nella zona e che l’attacco è stato compiuto da terra.
L’8 ottobre un altro raid aereo compiuto presumibilmente dalla coalizione araba colpisce dei civili che celebrano un altro matrimonio, nel villaggio sud-occidentale di Sanabani, un’area controllata dai ribelli sciiti. Tre fratelli aspettavano le rispettive spose nella casa di loro padre, come vuole la tradizione. Era il primo matrimonio celebrato nel villaggio dall’inizio della guerra, un tentativo di riportare la normalità tra gli abitanti. La cerimonia era quasi terminata quando le prime bombe hanno iniziato a colpire il villaggio. “C’erano corpi ovunque”, spiega Hamid Sanabani, 29 anni, uno dei parenti che partecipavano al matrimonio. “L’attacco è avvenuto la sera, dopo il tramonto. Si è alzata una nuvola di fumo tale che per cercare i morti tra le macerie abbiamo usato la luce delle candele”, racconta un altro testimone ai media locali. I morti sono 26, tra cui 12 donne e 13 bambini secondo l’ong locale Mwatana, ma nonostante le accuse dei media, dei residenti e delle ong, il portavoce della coalizione Ahmed Asseri nega il coinvolgimento dell’Arabia Saudita. “Non tutte le esplosioni in Yemen sono un bombardamento aereo. Possono essere causate anche da missili o autobombe”, dice alla stampa.
“Le persone cominciano ad aver paura di celebrare matrimoni nel paese”, spiega un giornalista locale ai media, “ma gli yemeniti sono un popolo forte che ama la vita e molti di loro continuano ad andare alle cerimonie”.
Sia gli americani, sia la coalizione araba si appoggiano a informatori locali per reperire informazioni sui target. L’obiettivo è avvicinare i capitribù sospettati di sostenere i ribelli Houthi o i militanti islamisti. Il bombardamento del matrimonio del dicembre 2013 ne è un esempio. Anche in quell’occasione, secondo le ricostruzioni di alcuni analisti, il Pentagono riteneva che una delle due tribù aiutasse Badani a nascondersi. Durante queste feste, inoltre, è normale che i partecipanti portino con sé armi da fuoco e qualche proiettile sparato in aria potrebbe aver tratto in inganno gli americani che osservavano la scena dall’altra parte del mondo con immagini satellitari.
[**Video_box_2**]Lo scorso giugno, nella città di Mukalla, militanti di al Qaida hanno ucciso due sauditi accusati di lavorare come spie per gli americani. Secondo gli islamisti, i due riferivano a Riad sugli spostamenti di diversi leader del gruppo terroristico, molti dei quali erano stati uccisi in pochi giorni da raid aerei. Tra questi personaggi c’era anche Nasser al Wuhayshi, uno dei fedelissimi di Osama bin Laden e leader dell’organizzazione. I corpi senza vita e insanguinati delle due spie, hanno detto i residenti, sono stati appesi come un trofeo a un ponte. Al collo avevano appeso un cartello. Diceva, per lo più: “La casa dei Saud dirige gli aerei americani per bombardare i santi guerrieri”. Al Qaida da una parte e i sauditi dall’altra cercano di smascherarsi a vicenda e adottano lo stesso metodo, infiltrandosi nei clan locali. E’ un gioco che talvolta dà risultati, come quando alcuni informatori di Riad raccolsero informazioni sufficienti per sventare un attentato suicida a bordo di un aereo a Detroit nel 2009. Ma come dimostrano i casi dei matrimoni colpiti e la quantità documentata di obiettivi non militari bombardati dalla coalizione, la maggior parte delle volte le informazioni sono inesatte.
Dopo oltre 200 giorni di bombardamenti quotidiani, i residenti invocano la fine della guerra e dei raid che colpiscono tutti i quartieri di Sanaa e Aden. A Taiz, dove la coalizione ha lanciato in queste settimane un’offensiva per liberare la capitale dai ribelli, le vie di accesso al governatorato sono state chiuse, imprigionando di fatto la popolazione locale che non può fuggire e non riesce a ricevere acqua e cibo, favorendo il mercato nero. Rob Simpson, un cooperante residente a Sanaa, ha scritto: “Se è vero, come dice l’Arabia Saudita, che i bombardamenti sono stati tutti correttamente eseguiti contro gli obiettivi stabiliti, qual è la percentuale di questa città che non è un obiettivo?