Hillary vince la gara di Bengasi e gli astri si allineano nel verso giusto
New York. Hillary si è presentata davanti alla commissione d’inchiesta su Bengasi con l’obiettivo di non uscirne troppo ammaccata, e undici ore più tardi si è ritrovata a festeggiare una vittoria insperata, un momento di riscatto e riabilitazione celebrato dalla stampa che ha seguito la sfiancante diretta con la mano sul pulsante rosso, pronta a segnalare l’errore. Ma il pulsante non si è mai acceso. Hillary ha vinto questa competizione sulla lunga distanza lavorando di self control e pazienza, lasciando fuori dall’aula la foga aggressiva che l’aveva portata al famoso “what difference does it make?” della prima testimonianza al Congresso sull’attacco che ha ucciso quattro americani n Libia nel 2012.
La performance è stata perfetta perfino nelle pause, quando la Hillary in modalità campagna elettorale abbracciava, sorrideva, incassava e ricambiava complimenti, parlava di concerti di Katy Perry come se non fosse sotto torchio da parte di una commissione d’inchiesta che dopo 18 mesi non ha prodotto o esibito nuovi elementi nella ricostruzione della vicenda. Perfino le battute le sono riuscite, e per una volta è stata lei a invocare, dopo sette ore di interventi, un po’ di “levity” quando un’inflessibile deputata repubblicana s’informava se era da sola in casa la notte in cui l’ambasciatore Chris Stevens e gli altri sono stati uccisi. Ha avuto la sua buona dose di aiuti da parte dei democratici in commissione, Hillary, e il combattivo deputato Elijah Cummings si è trasformato in una specie di difensore d’ufficio, anche più efficace dell’inquisitore Trey Gowdy, logorato dagli attacchi di chi dice che ha usato l’inchiesta per scopi politici.
La candidata alla presidenza non ha detto nulla di nuovo, non ha esibito elementi o argomentazioni inedite per spiegare la gestione del caso, ma nemmeno i suoi accusatori hanno estratto conigli dai cilindri. Così, in assenza di nuova carne sul fuoco, ha vinto ai punti chi ha affrontato con più autorevolezza e personalità la situazione, e dopo tante performance balbettanti Hillary ha indossato la maschera presidenziale. Ha proceduto per sottrazione e depotenziamento, trasformando l’udienza dell’anno in ordinaria amministrazione, e la lunghezza della maratona ha giocato a suo favore. A fine giornata anche i media conservatori, da Fox al Washington Examiner, le hanno concesso la vittoria, ed è significativo che Matt Drudge, il grande avversario della casata Clinton, si sia dovuto appellare all’accesso di tosse che a un certo punto ha preso Hillary, sintomo di condizioni di salute incompatibili con la presidenza. Il resto l’hanno fatto i repubblicani, specialisti nell’arte di spararsi sui piedi, che con una serie di dichiarazioni e risposte maldestre hanno fatto capire che la commissione d’inchiesta non era che uno strumento elettorale. “La migliore settimana fino ad ora”, titola il magazine del quotidiano Politico: dopo tante difficoltà pare ora che gli astri si siano allineati nel verso giusto per Hillary: prima il dibattito democratico della Cnn ha visto una candidata pugnace ed efficacissima anche contro un gran pugile del palcoscenico come Bernie Sanders; poi il vicepresidente, Joe Biden, ha annunciato che non correrà per la presidenza, e nonostante la frecciata sparata – con Barack Obama al fianco – contro le “famiglie politiche” che dominano l’America, la notizia è un indicibile sollievo per Hillary; Jim Webb e Lincoln Chafee hanno abbandonato la candidatura, cosa che passerà inosservata all’elettorato, ma per Hillary significa avere due elementi di disturbo in meno lungo la via.
[**Video_box_2**]I sondaggi crescono e l’umore migliora nel quartier generale di Brooklyn, dove il team della campagna si può concentrare sugli accorti spostamenti a sinistra per togliere fiato al populismo socialista di Sanders e sul coordinamento delle celebrities che tirano la campagna. “Sono quelle due settimane per cui prega ogni candidato”, ha detto lo stratega Bob Shrum. Ora si tratta di capitalizzare.
Dalle piazze ai palazzi