Varsavia l'americana
Il regalo di Stalin ha festeggiato sessant’anni. Quando venne costruito, nel 1955, il Palazzo della cultura e della scienza di Varsavia (PKiN) svettava solitario nel centro di una città ancora devastata dalle macerie della guerra. Oggi appare affogato dalla concorrenza dei grattacieli in vetro e cemento del distretto finanziario, il centro moderno di Varsavia. Simbolo della Polonia rampante, è uno specchio di Manhattan con un cuore sovietico sopravvissuto alle intemperie della storia.
Nel 1989, con l’avvento della democrazia, qualcuno propose di sbriciolare il PKiN, visto il suo legame stretto con l’epoca comunista. L’ipotesi si spense con il tempo. Oggi questo edificio, fino agli anni 70 riservato alle liturgie di partito, è il più vasto polo culturale della capitale. Nelle sue stanze c’è di tutto: cinema, teatri, musei, jazz club, un’accademia di fotografia, locali e ristoranti dove la classe media si barrica ogni sera. Tutto questo mette in circolo molto denaro e fa del PKiN un testimone, a suo modo, del capitalismo alla polacca. Si presenta con due facce. Da un lato, ricorda il modello arrembante americano. Dall’altro, almeno a Varsavia, c’è un che di berlinese. Forse perché la capitale polacca, costellata di gru e cantieri aperti, ricorda la Berlino irrequieta degli anni 90.
Dalla terrazza panoramica del PKiN si scorge, oltre il letto della Vistola, che taglia in due Varsavia, un altro bastione dello skyline cittadino: lo Stadion Narodowy (stadio nazionale), costruito per gli Europei di calcio del 2012. Anche in questo caso la transizione politica e quella urbana sono andate di pari passo. L’arena di oggi sorge esattamente dove campeggiava quella dell’epoca del regime. Dopo il 1989 lo stadio si trasformò in un enorme mercato delle pulci all’aperto. Fu la fase primitiva dell’èra capitalista.
Questa storia si è conclusa quando lo stadio è stato demolito per far posto allo Stadion Narodowy. Il cui manto erboso, finiti gli Europei, è stato asportato. D’altronde all’interno di questo catino i calci al pallone si tirano di rado (in questi casi si compra manto erboso per poi buttarlo via a match terminato). Lo stadio è stato trasformato in un fruttuoso contenitore di eventi d’ogni genere. Non solo sportivi. Qui si tengono anche i grandi concerti. L’afflusso di pubblico – 1,8 milioni di persone nel 2014 – garantisce incassi notevoli. “L’anno scorso abbiamo iniziato a generare profitti. Ci siamo riusciti prima del previsto, a soli tre anni dall’inaugurazione. Allo stadio di Wembley, a Londra, ce ne sono voluti otto”, riferisce Piotr Glinkowski, un portavoce della società pubblica che amministra lo stadio. E così i polacchi, questi americani dell’est, sono riusciti a trasformare in una vera e propria macchina da soldi, che per giunta alimenta le casse di stato, quella che poteva diventare una cattedrale nel deserto.
Lo Stadion, portando investimenti e migliorie infrastrutturali, ha generato ulteriore cambiamento anche nel vicino quartiere di Praga, sempre sulla sponda est della Vistola. Durante il comunismo, gli antichi edifici sopravvissuti alla guerra furono abbandonati all’incuria, creando il mito di un ghetto urbano malfamato e pericoloso. Da quando però in queste case malandate ma dal fascino senza tempo hanno cominciato a far capolino artisti e creativi è iniziato il riscatto.
Nel complesso in mattoni rossi di quella che nel Novecento fu prima una grande fabbrica di munizioni, poi di motocicli, è nata Soho Factory, il sogno newyorchese di Varsavia. Un’incubatrice di start-up che ha attirato giovani imprenditori, fotografi di moda, designer, stilisti, commercianti, gestori di locali di tendenza, architetti e costruttori. Di fianco a piccole imprese tecnologiche sono sorti atelier di giovani stilisti, negozi di arredamento moderno, ristoranti sofisticati e caffè.
In un capannone industriale della Soho Factory, David Hill, un inglese nato alle Bermuda e approdato a Varsavia alla ricerca di nuovi stimoli, dirige assieme alla compagna Ilona Karwinska il Neon Muzeum, uno spazio espositivo unico nel suo genere, finanziato con donazioni private. “Tecnicamente si tratta di un museo di arte grafica elettronica”, dice al Foglio mentre illustra il patrimonio raccolto negli ultimi dieci anni: scritte al neon che illuminavano le notti della Varsavia socialista, insegne di mille colori strappate alla furia iconoclasta del post comunismo e riportate in vita attraverso un costoso lavoro di restauro.
“Spuntarono alla metà degli anni Cinquanta, sull’onda della destalinizzazione che fu una stagione di relativa apertura artistica. Il regime cercava di adottare nuovi linguaggi comunicativi e di superare il grigiore del periodo più ideologico”. Oltre 200 insegne raccontano lo sforzo del mondo socialista di rincorrere sul versante della grafica urbana l’occidente, anche se i neon di Varsavia non suggerivano, come nel mondo capitalistico, sogni pubblicitari. Piuttosto segnavano una sorta di topografia della città: il nome di un caffè, di un albergo, di un locale da ballo, di un cinema.
Lo spazio espositivo di Hill e Karwinska non è un inno al rimpianto del mondo comunista scomparso. E’ testimonianza che si trasforma in business. Tutto molto americano, anche questo. “A quei tempi i neon erano visti come un contributo decisivo alle aspirazioni economiche e culturali della Polonia – insiste Hill – e oggi noi approfittiamo del boom economico del paese e degli investimenti che vengono fatti in zone come questa”. Basta dare un’occhiata fuori dalla grande vetrata del museo: nuove insegne luminose, prodotte da Hill e Karwinska, campeggiano sulle facciate degli edifici che ospitano le attività commerciali e imprenditoriali della Soho Factory. “I guadagni dalla fabbricazione di nuovi neon rappresentano una quota fondamentale del nostro business. C’è una vera e propria rinascita, creiamo neon contemporanei e li vendiamo addirittura nel resto d’Europa”. Sugli otto ettari di terreno che compongono la factory, accanto ai capannoni industriali riadattati per le imprese della new economy sono sorti ristoranti e bar, luoghi di ritrovo, appartamenti moderni e funzionali. “Qui vive e lavora una vera e propria comunità che sente l’obbligo di aprirsi al resto del quartiere”, conclude Hill, cercando di esorcizzare il fantasma della gentrificazione. “L’idea originaria di mettere insieme cultura e commercio, sul modello di quanto avvenuto in altre capitali occidentali, sta funzionando, l’integrazione con il resto del quartiere prosegue. Non parlerei di gentrificazione, ma della possibilità di offrire agli abitanti di un’area prima marginale nuove opportunità, culturali ed economiche. Qui prima non c’era nulla, oggi è il quartiere a più intenso sviluppo sociale di Varsavia”.
In un capannone poco più avanti, la fotografa e stilista Isabel March è nel pieno di un servizio fotografico per il calendario di un’azienda. Tema: la donna futurista. Una modella a seno nudo ammicca sensuale nell’obiettivo, una Mercedes nera d’epoca fa da sfondo al set, il vapore artificiale ricrea atmosfere torbide da anni Venti. Isabel scatta, come in trance, una foto dietro l’altra, fino a quando, esausta, poggia a terra la fotocamera e spiega perché ha scelto Varsavia: “Vivo a Parigi e lavoro in tutto il mondo ma sono nata a Poznan e mi piaceva poter creare un set nel mio paese. Sono venuta a Varsavia, nella Soho Factory, e ho trovato l’ambiente ideale per quel che avevo in mente. Conoscevo il luogo solo di fama, è di moda negli ultimi tempi, sempre più utilizzato per produzioni e fotoshooting. Si susseguono sfilate, concerti, mostre, eventi di ogni genere, è magnifique”.
L’altro motivo che ha portato Isabel March a scattare a Varsavia sono i costi di produzione, più bassi rispetto a quelli parigini. Il discorso vale per lei, come per tutte quelle migliaia di aziende della “vecchia” Europa che hanno deciso di puntare sulla Polonia (quelle italiane fatturano molto più qui che in Cina), che sia stato con investimenti greenfield o con lo spostamento di alcuni segmenti produttivi.
E’ però riduttivo guardare al più grande fra i nuovi paesi membri dell’Unione europea come a una grossa officina low cost. Lo era negli anni 90, ma dopo l’ingresso nell’Ue la partitura è stata riscritta. La pioggia di fondi strutturali, egregiamente assorbiti dagli amministratori, unita all’arrivo di nuovi investimenti, all’ambiente sempre più proteso all’internazionalizzazione e al mercato unico europeo, con la sua ricca dote in termini di scambi, hanno progressivamente innalzato la qualità del sistema paese. La competitività polacca, oggi, è assicurata anche da fattori quali l’istruzione, la burocrazia tutto sommato efficiente e le infrastrutture. Al posto delle vecchie mulattiere ci sono, finalmente, vere arterie stradali. Al punto che, proprio in virtù di questa evoluzione, colossi dell’edilizia industriale come l’americana Prologis e la britannica Segro stanno costruendo anche nelle regioni del paese tradizionalmente meno sviluppate: quelle orientali, addossate a Bielorussia e Ucraina.
Populismo al governo o stanchezza di governo?
I fondamentali dell’est polacco sono più deboli rispetto a quelli della fascia centro-occidentale del paese che beneficia della sponda tedesca. E’ la corsa delle città appollaiate su questo secondo versante, Wroclaw, Poznan, Lodz, Danzica e Cracovia, oltre ovviamente alla capitale, che porta a sdoganare la parola “miracolo”. Forse un po’ abusata. La Polonia ha fatto passi da gigante. E’ un paese pimpante, che ha linfa. Tuttavia non vanno sottovalutati limiti e squilibri. Né si può dimenticare la vera sfida che attende il paese. Varsavia, quando il flusso di fondi strutturali e investimenti inizierà inevitabilmente a contrarsi, dovrà infatti essersi dotata di risorse e leve che le permettano di reggersi grazie alla forza delle proprie gambe.
[**Video_box_2**]E’ comunque fuor di dubbio che la Polonia abbia vissuto negli ultimi tempi i suoi “anni dorati”, come li chiama Konrad Sadurski, vicedirettore di Gazeta Wyborcza, quotidiano più venduto del paese, di orientamento liberale. Seduto ai tavolini all’aperto di un ristorante nel cuore storico di Varsavia, dice al Foglio perché però il miracolo economico è a rischio. C’entrano le elezioni di domenica: “Al governo potrebbero arrivare dei veri e propri ignoranti in economia, che con le loro proposte potrebbero rimettere in discussione quanto di buono realizzato finora”. Il riferimento è ai populisti di Diritto e Giustizia (PiS), il partito guidato da Jaroslaw Kaczynski. Sono avanti nei sondaggi e presentano un programma elettorale pieno di spesa pubblica e promesse. Importando la ricetta attuata in Ungheria da Viktor Orbán, vogliono anche alzare le tasse sui comparti bancario e della grande distribuzione, controllati principalmente da capitale straniero. Si teme che la cosa possa spaventare gli investitori. Sadurski segnala inoltre l’idea, ritenuta non facilmente sostenibile, di azzerare la riforma pensionistica che porterà gradualmente al ritiro dal lavoro a 67 anni, voluta dall’ex primo ministro Donald Tusk. Il suo partito, la Piattaforma civica (Po), al potere dal 2007, aveva perso smalto e carica riformista già da prima che lo stesso Tusk volasse a Bruxelles.
Di stanchezza del governo parla Anna Wojcik, giovanissima editor della rivista Visegrad Insight, uno dei laboratori culturali più interessanti dell’Europa centrale: “Sembra che Piattaforma civica abbia perso la voglia di governare, di spiegare le sue politiche, di sostenere i risultati positivi della sua azione”, dice al Foglio. Eppure l’imminente rituale delle urne e i futuri cambiamenti a palazzo non sembrano in grado di schiodare i creativi della Soho Factory, e forse l’intero paese, dall’idea che questa crescita un po’ all’americana possa continuare. E in effetti i rumori dei cantieri di Varsavia, la vista dei suoi grattacieli e le scosse di modernità che ne attraversano le pieghe portano a maturare la stessa impressione.