Io, il Foglio, i Radicali e la guerra in Iraq. Ecco perché la pensiamo diversamente
Non ero d’accordo con questo giornale al tempo della guerra di Bush e Blair in Iraq, non sono d’accordo col giudizio che qui ne viene motivato oggi, a ridosso della mezza autocritica, nemmeno inedita, di Blair. Ma trovo che la gamma di reazioni di oggi sia significativa di una vasta confusione, e della ricerca affannata, così tipica di tutte le crisi da confusione, di una via facile facile. Ieri ho ascoltato il programma di Radio 3, “Tutta la città ne parla”, dedicata al tema. Franco Cardini (superlavoro: un paio d’ore dopo raccontava gustosamente la Ferrara estense per RaiTre con Massimo Bernardini, “Il tempo e la storia”) ha ricordato la responsabilità di inglesi e francesi alla fine della Prima Guerra mondiale, che era un risalire piuttosto indietro.
Arduino Paniccia, mostrandosi cortesemente d’accordo, avvertiva però che le guerre mosse in nome dei diversi islam hanno ormai una motivazione autonoma. Secondo Domenico De Masi il pacifismo, che alla vigilia di quella guerra irachena aveva toccato il culmine – fu vezzeggiato allora dal New York Times col titolo di Superpotenza – non ne è uscito sconfitto, perché come tutti i movimenti il pacifismo non può che avere un andamento carsico, inabissarsi e riaffiorare. De Masi è fiducioso che ciò torni ad avvenire, quando le circostanze lo esigano. Impeccabile teoricamente, l’argomento è naufragato di fatto sui quattro anni e mezzo di carneficina siriana, dove perfino il numero dei morti – oltre 250 mila secondo valutazioni condivise – eccede quello, certo controverso, dei morti nella guerra d’Iraq. Il pacifismo, che fu allora davvero espressione di una passione profonda e generosa di tanta parte dell’occidente e dei suoi giovani, volle ispirarsi – e continua a farlo – all’atteggiamento compendiato in Italia dallo slogan “Senza se e senza ma”, che intende esprimere una sete d’assoluto, e si traduce nella rinuncia a misurarsi con le situazioni concrete. Scoppiata davvero la guerra che si voleva sventare, quell’assolutezza diventa una frustrata impotenza mondiale. Di fronte al contagio di guerre civili e internazionali dilagato nel medio oriente, attraverso un territorio che va almeno dal Maghreb e l’Africa centrale all’Afghanistan, con Siria e Iraq al centro, il pacifismo non è esistito se non con grottesche manifestazioni periferiche per scongiurare un qualche uso della forza a protezione delle vittime. La passione generosa che vi si affidava anche a costo di restarvi congelata non è spenta, ma rinunciando al merito, cioè a chiedersi se e ma e quando e come, ha potuto riemergere solo attraverso varchi improvvisi e laterali, come la solidarietà col calvario dei migranti, esplosa finalmente nell’estate scorsa. E’ tragico che spesso questa generosità ripudi a priori ogni iniziativa mirata ad arginare le origini della risacca dei migranti fino alle nostre coste e ai nostri fili spinati. Nell’ora di “Tutta la città” mi ha meravigliato l’assenza di una voce dei Radicali. Pannella e i suoi sono restati quasi ossessivamente attaccati al punto della vigilia della guerra in Iraq e delle responsabilità di Blair, nel corso di questa dozzina d’anni, e hanno assiduamente seguito i lavori della commissione d’indagine inglese. Riconosciuta questa tenacia, io ho creduto allora e poi che Pannella s’ingannasse a figurare un Saddam Hussein disposto e anzi pronto all’esilio, e che Bush e in particolare Blair abbiano voluto chiudergli la strada scatenando una guerra decisa da tempo e a ogni costo. Non credetti e non credo che quella disponibilità esistesse, e al contrario penso che Saddam, come ogni tiranno di lunga data – come oggi Bashar al Assad – fosse ubriaco della sua onnipotenza. Qui è il punto della divergenza coi miei amici radicali e d’altra parte con i miei amici del Foglio. Ero contrario alla guerra d’Iraq e all’esaltante napoleonismo dell’esportazione della democrazia. Ritenevo allo stesso tempo che il movimento pacifista, rinunciando a completare il proprio No alla guerra con il No alla dittatura di Saddam, si mutilasse di un’efficacia politica e, peggio, contribuisse a rafforzare, con la stessa formidabile estensione delle sue manifestazioni, la persuasione di Saddam che alla fine l’intervento non sarebbe avvenuto. Lungi dall’indurlo all’esilio e a una transizione, l’unilateralità del pacifismo internazionale lo confermava nel suo delirio.
Questa la mia differenza dai radicali: Saddam non sarebbe andato in esilio. Questa la mia differenza dal Foglio: non solo perché continua a sostenere la giustezza della guerra di Bush jr e Blair, ma perché continua a immaginare che sia giusto intervenire militarmente per abbattere le dittature, senza bisogno di appigli in false o vere minacce di armi di distruzione di massa. Nella mia idea di polizia internazionale, nome che vi sembra tuttora troppo imbelle o velleitario, chissà perché, si può e si deve intervenire contro le dittature quando il loro popolo si sia ribellato e mostri il proprio desiderio di libertà e democrazia – due parole che si completano, l’una riguardando le persone e l’altra la loro convivenza. Ma in quel caso, come nella Siria del primo tempo di ribellione e repressione, una forza legittima vuole proteggere una popolazione dai crimini di guerra e contro l’umanità di un dittatore apertamente disconosciuto. Infine, mi sembra evidente che fra quella guerra d’Iraq e la vicenda corrente del vicino oriente c’è un legame: ciò che non basta a togliere ai protagonisti delle infamie di oggi una piena responsabilità, e a farne degli epigoni feroci ma automatici delle colpe di Bush e di Blair e dell’Occidente. Questo continuo risalire lungo il filo – i fili, poi: ciascuno attaccandosi al proprio prediletto – è semplicemente un modo per lasciare che le infamie continuino a compiersi, e che gli infami ne siano assolti, o almeno decorati delle attenuanti.
[**Video_box_2**]Quanto a Blair, se il suo errore al momento della guerra d’Iraq fu l’eruzione di un diverso delirio di potere, la più umbratile carriera di consulente prezzolato di despoti e sfaccendato mediatore diplomatico del Dopoguerra è a suo modo altrettanto incresciosa.
I conservatori inglesi