Freelance country
Quando è scoppiata la crisi economica, nel 2008, molti, soprattutto giovani, si misero a lavorare in proprio. Non c’era altro da fare: le aziende, quando potevano, licenziavano o comunque tagliavano, non rinnovavano i contratti, spegnevano le speranze di carriera o di assunzione a lungo termine. Mentre le immagini dei giovani della City e di Wall Street con le loro scatole di cartone da licenziati occupavano il nostro immaginario, i più intraprendenti si inventavano un modo per rimanere impiegati, diventando datori di lavoro di loro stessi. Si pensava fosse un “blip”, scrive l’Economist, un contrattempo: con la fine della crisi, i freelance improvvisati sarebbero tornati al lavoro dipendente. Nel Regno Unito, che da quello choc è uscito con slancio brillante, non è andata così: se si guardano i dati, il numero di imprenditori-freelance è più alto di quello del 2008, ed è il più alto di tutti gli altri paesi del G7 (l’Italia ne ha meno del 2008 e meno della Francia, ma più della Germania, del Canada, degli Stati Uniti e del Giappone). Pur scampati dalla recessione, gli inglesi hanno deciso di continuare a vivere nella condizione d’emergenza che si erano costruiti in assenza di alternative. Perché?
C’entra la “gig economy” – c’entra un po’ sempre. La possibilità di diventare un autista di Uber o di entrare nella comunità di PeoplePerHour, il sito per freelance più famoso del Regno in cui puoi mettere a disposizione i tuoi servizi senza passare da un datore di lavoro che ti vede e ti vedrà per sempre soltanto come una voce di costo, ha contribuito a mantenere alto il coraggio di vivere una vita da freelance, senza garanzie, senza sicurezze, senza la busta paga a fine mese. I ragazzi inglesi sono superdigitalizzati, c’è uno dei tassi più alti di dipendenza dallo smartphone del mondo sviluppato, e quando l’economia è ripartita si è imposta una cultura delle start-up unica in Europa.
Poi c’entrano le donne che, per risolvere il sempiterno problema dell’equilibrio tra famiglia e lavoro, hanno spesso preferito mettersi in proprio, organizzandosi le giornate, costruendo da sole quella flessibilità che il sistema non offriva, come ha spiegato in un report la Banca d’Inghilterra: quasi la metà dei posti di lavoro delle donne tra il 2008 e il 2015 è da freelance.
[**Video_box_2**]Poi c’entrano le persone più anziane, perché la proporzione di over 65enni datori di lavoro di loro stessi è in crescita. Questo in realtà non è dovuto a un’effervescenza da freelance, come può essere invece per i giovani e per le donne, quanto piuttosto dal fatto che i rendimenti dei fondi pensione non sono stati affatto soddisfacenti in questi anni. Secondo i dati dell’Oecd, il Regno Unito è tra i meno convenienti tra le nazioni sviluppate per i pensionati. Non è quindi detto che la “freelance country” sia felice per sempre. Perché buona parte dei giovani che lavorano in proprio non mette via niente per il futuro, non ha un’alta produttività e guadagna poco. L’ultima cosa di cui ha bisogno il governo di David Cameron – alle prese con una querelle fastidiosa sull’eliminazione dei sollievi fiscali per le classi meno abbienti: molti paragonano la crisi a quella della “poll tax” che sancì il declino della Thatcher – è una generazione di trentenni frustrati e impoveriti: il sogno britannico svanirebbe subito. Ma ci sono anche elementi positivi: la soddisfazione, per esempio. Posso fare quello che voglio, magari guadagno meno ma non ho l’esaurimento nervoso (uno studio segnalato ieri dal Financial Times dice che lo stress da lavoro può togliere fino a tre anni di vita!). Sembra poco, ma se l’alternativa è comunque la disoccupazione, allora quel sorriso vale tantissimo.