Resa (e noia) dell'occidente
L'Iran entra nel negoziato siriano e sancisce il medio oriente post americano
Milano. La Repubblica islamica d’Iran ha detto sì, e l’invito formulato dagli Stati Uniti per discutere della crisi siriana questo pomeriggio a Vienna è stato accettato dal ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif in persona. E’ la prima volta che gli Stati Uniti decidono di ricevere i diplomatici di Teheran in un negoziato che non riguardi il programma nucleare, ed è la prima volta che gli Stati Uniti trattano apertamente con il principale sponsor del regime siriano di Bashar el Assad. Ed è con sollievo che Washington ha accolto il sì: in questo mondo capovolto, c’era anche il rischio che Teheran rifiutasse. Il rendez-vous viennese è l’esito del piano diplomatico che va tessendo il presidente russo Vladimir Putin, preparato durante conversazioni telefoniche e incontri con i sauditi e i turchi. Il capo della Cia, John Brennan, ha dichiarato appena dopo l’invito: “Malgrado quel che si dice, non penso che i russi vedano Assad nel futuro della Siria: la domanda semmai è capire quale sarà il momento giusto e come saranno in grado di accompagnare Assad fuori dalla scena”. Per gestire qualsivoglia transizione a Damasco, non si può prescindere dagli iraniani, hanno pensato gli americani, ed eccoci qui a Vienna. Dopo l’accordo sul programma nucleare, la legittimazione della Repubblica islamica è completa: si tratta alla pari, soprattutto in quella che il New York Times, in una bella infografica, ha definito la “proto-world war” siriana. Ed è per questo che la rivista Foreign Affairs, bibbia dell’establishment washingtoniano, dedica il suo ultimo numero al medio oriente post americano. Quello in cui l’occidente non ha più la leadership.
L’ultimo numero di Foreign Affairs è dedicato al medio oriente post americano e, come spiega il direttore Gideon Rose nella breve introduzione, si interroga su quel che ha fatto e deve fare l’America nelle guerre mediorientali: la premessa è che gli Stati Uniti hanno perso il loro ruolo di leadership. “Il vecchio medio oriente è stato seriamente scosso – scrive Rose – dove persiste o è stato restaurato, come in Arabia Saudita e in Egitto, zoppica senza troppa fiducia né stabilità. Il nuovo medio oriente è un ‘work in progress’, dall’Iraq e la Siria fino alla Libia e allo Yemen, nessuno sa come saranno le cose quando la polvere si sarà depositata. E se, dopo che il deal nucleare sarà messo in pratico, l’Iran sceglierà il conflitto, l’integrazione o un mix dei due resta un mistero”. Restate sintonizzati, invita Rose, perché lo spettacolo del medio oriente senza America è appena cominciato.
Il primo saggio di Foreign Affairs è dedicato alla morte della pax americana. I due autori hanno entrambi lavorato alla Casa Bianca di Obama: Steven Simon è stato il direttore dell’ufficio degli Affari del medio oriente e dell’Africa del nord dal 2011 al 2012; Jonathan Stevenson è stato il direttore degli Affari politico-militari del medio oriente e dell’Africa del nord nel Consiglio di sicurezza nazionale dal 2011 al 2013 (ora sono tornati tutti e due nel mondo accademico) – si può quindi prendere questa analisi come una declinazione ideologica e politica della visione obamiana. Simon e Stevenson scrivono che “la riluttanza dell’Amministrazione Obama a usare forze di terra in Iraq o in Siria non è tanto un ritiro, quanto una correzione – un tentativo di restaurare la stabilità durata per qualche decennio grazie al freno americano, non all’aggressività americana”. L’interventismo post 11 settembre “era anomalo e ha formato la falsa percezione di un ‘new normal’” che in realtà non era affatto normale: era un accidente della storia.
E’ con un certo sollievo che Simon e Stevenson festeggiano l’attuale “back to normal”, in cui gli Stati Uniti tendono a tenersi il più lontano possibile dai conflitti mediorientali, badando soltanto a gestire gli interessi di base condivisi con i partner regionali – interessi che vanno via via riducendosi. “Mentre l’importanza del medio oriente per la politica estera americana va evaporando e gli interessi degli Stati Uniti e dei suoi partner tradizionali in medio oriente divergono sempre più, la capacità del potere militare americano di cambiare in qualche modo la regione è pure in diminuzione”. Combattere si può, in certi casi si deve anche – è pur sempre lo stesso Barack Obama che ha definito l’obiettivo di “distruggere” lo Stato islamico. Ma poi? “Un’operazione militare a guida americana contro lo Stato islamico – scrivono Simon e Stevenson – produrrebbe senza dubbio grandi e gratificanti vittorie sul campo. Ma il periodo successivo al conflitto farebbe capire l’inutilità di tutto il progetto”. Per consolidare i risultati, ci vorrebbe una volontà politica sostenuta dall’opinione pubblica americana, ci vorrebbero tanti esperti da lasciare sul terreno per la ricostruzione e la stabilizzazione, ci vorrebbe una profonda conoscenza della società di cui gli Stati Uniti vittoriosi dovrebbero prendersi la responsabilità, e, “cosa ancor più problematica”, ci vorrebbe una forza militare stabile che garantisca la sicurezza.
E se tutte queste condizioni pure fossero presenti – continuano i due autori – Washington avrebbe problemi a trovare partner o alleati locali credibili: “Se tutto questo vi suona famigliare, è perché si tratta della stessa lista di cose che Washington non è riuscita a mettere insieme nelle ultime due volte in cui ha lanciato grandi interventi militari in medio oriente, con l’invasione dell’Iraq nel 2003 e con la campagna aerea della Nato in Libia nel 2011. Detto semplicemente: gli Stati Uniti perderebbero un’altra guerra in medio oriente per le stesse ragioni per cui hanno perso le ultime due”. In tempi di ripensamenti, di lezioni imparate sempre seguendo testi preconfezionati dal mainstream, è meglio non provarci neppure a fare una guerra impopolare contro il terrorismo: è per questo che la Casa Bianca di Obama ha deciso – saggiamente, secondo Simon e Stevenson – di non intervenire in Siria. Certo, ora ci troviamo a dover definire nuove alleanze alla luce dell’accordo con l’Iran, e certo quel che farà l’Iran, che non smette mai di dichiarare i propri intenti egemonici, non è prevedibile, ma proprio il deal con Teheran “ha dimostrato il potenziale della diplomazia per migliorare le crisi regionali” – migliorare, per quanto possa suonare agghiacciante, è l’esatto termine utilizzato dai due autori. Washington deve dunque affidarsi alla diplomazia, riconoscendo che il suo ruolo è diminuito e la sua influenza non è forte come un tempo: “Invece che cambiare il corso degli eventi, gli Stati Uniti devono abbracciare l’idea di un nuovo e più sano equilibrio nelle relazioni mediorientali, che comprende un ruolo di guida più leggero per l’America. L’interventismo centrato sul potere militare degli ultimi 14 anni è stato un’aberrazione in una storia ben più lunga di contenimento americano: non deve rafforzarsi in un ‘new normal’ di lungo periodo”. La resa dell’America non è frutto di sbadataggini incompetenti del presidente americano: è una scelta.
Per fortuna non tutti i saggi dell’ultimo Foreign Affairs sono tanto deprimenti: la rassegnazione come ideologia non ha ancora preso del tutto piede. Daniel Byman, direttore del dipartimento di ricerche sul medio oriente della Brookings Institution, dice che il controterrorismo chirurgico dall’alto, con qualche ulteriore appoggio come sta decidendo in questi giorni il Pentagono inviando gli Apache, non è sufficiente: ci vuole, appunto, una strategia. Poiché l’assenza di leadership occidentale è la premessa, anche Byman cerca di fare i conti con una realtà mediorientale post americana: è necessario non fare troppo gli schizzinosi, per esempio, e imparare a gestire quei gruppi terroristici che, pur odiando gli Stati Uniti, non hanno come obiettivo primario quello di condurre attacchi in territorio americano. Si tratta di un mestiere invero ingrato, “nel lungo termine l’instaurazione di processi democratici potrà ridurre il fascino del terrorismo – scrive Byman – ma intanto gli Stati Uniti devono rafforzare gli ultimi elementi democratici dei regimi non democratici: i servizi di sicurezza”. Costruire una capacità di sicurezza di lungo periodo in medio oriente è vitale per prevenire il terrorismo: è così che si può avviare quel “state building” che permette di superare l’attuale tatticismo e allo stesso tempo garantire una certa stabilità. “L’obiettivo non deve essere la promozione della democrazia (espressione vietata negli ambienti di chi ha contribuito a creare questo medio oriente post americano, ndr) quanto la soluzione dei conflitti”, scrive Byman, e per raggiungerlo ci vogliono strumenti militari più tradizionali, per esempio gli interventi diretti dell’esercito. Ma l’ipotesi è molto costosa, e allora, siccome “alcune volte il terrorismo non può essere sconfitto, ma soltanto gestito”, è necessario fornire ai partner locali tutti i mezzi necessari perché siano loro i protagonisti di questa battaglia. Che è un po’ quel che accade ora, ma con un pizzico in più di volontà politica.
[**Video_box_2**]Ci sono altri saggi, su Foreign Affairs, che spiegano come si gestisce un medio oriente senza America, dalla necessità di una nuova deterrenza nei confronti dell’Iran se il deal non dovesse essere applicato come previsto, alle tattiche di guerra per contrastare lo Stato islamico sul terreno e nel cyberspazio, ma in tutti prevale la consapevolezza che il ruolo dell’occidente è sempre più ridotto e che saranno altri attori, in grande ascesa, a risolvere i guai mediorientali. L’assenza della leadership americana risuona ancor più paradossale se si pensa che la cultura occidentale non è mai stata tanto potente e riconoscibile, come ha scritto lo Victor David Hanson sulla National Review. Guardatevi attorno: le trenta università migliori del mondo nelle facoltà di scienze, tecnologia, ingegneria, medicina e informatica sono americane, inglesi, europee; la West coast degli Stati Uniti “ha cambiato il modo in cui tutto il mondo vive”, con Apple, Amazon, Google, Facebook e le infinite app più o meno disruptive che conosciamo; la capacità della “paccottiglia pop americana” di circolare in tutto il globo è quasi spaventosa, dagli psicodrammi di Hollywood alla volgarità dei rap è tutta egemonia culturale; pur con i tagli alla difesa, gli Stati Uniti continuano ad avere il potere militare convenzionale più grande di quasi tutto il resto del mondo messo assieme; gli imprenditori del petrolio americani hanno cambiato tutti i calcoli energetici globali; soprattutto: milioni di persone scappano dalle loro case per arrivare in Europa. Non vanno in Russia, in Cina o in India, “l’immigrazione è una strada occidentale a senso unico”, “coloro che se la prendono con l’occidente, come fanno le élite occidentali stesse, vogliono tantissimo viverci dentro”. Non c’è forma di attrazione più grande di quella esercitata dall’occidente, non c’è alcun altro posto al mondo tanto invitante, per quanto non sempre molto accogliente, eppure l’occidente sta morendo. O forse è già morto?, chiede Victor Davis Hanson con una delle sue letali domande retoriche. Il paradosso è questo: c’è la dominanza culturale, sociale, tecnologica, e allo stesso tempo c’è l’assenza di leadership, di visione, di proiezione di una strategia chiara ed efficace nel mondo.
Victor Davis Hanson è uno storico detestato negli ambienti liberal perché è iscritto al Partito democratico ma ha votato per George W. Bush due volte di fila: era a favore della guerra in Iraq e un convinto sostenitore della superiorità del modello occidentale rispetto al resto del mondo (era anche un gran fan di Donald Rumsfeld, ex segretario alla Difesa, cosa imperdonabile). Il suo libro più famoso, “Carnage and Culture”, risale a prima degli attacchi dell’undici settembre del 2001 a New York, ma fu pubblicato subito dopo con una nuova introduzione in cui Hanson spiegava perché la guerra al terrore era giusta, ma che l’occidente, grazie al suo sistema di libertà e di stato di diritto, l’avrebbe anche vinta. Convinto com’è dell’eccezionalismo occidentale – americano in particolare – Hanson da anni registra il lento degradare della consapevolezza dell’occidente e imputa le ragioni di questo declino alla noia: abbiamo avuto tutto, la libertà e il benessere, e ora ci ha preso l’ennui. C’è lo sfinimento teorizzato di recente dal professore Joshua Mitchell su American Prospect, e c’è la noia, che nel nostro immaginario è ben rappresentata da quel famoso incontro del team di sicurezza nazionale di Barack Obama sulla Siria in cui il presidente masticava Nicorette giocherellando con il Blackberry. “Non soltanto gli occidentali hanno dimenticato chi ha garantito loro tanta abbondanza – scrive Victor Davis Hanson – ma tendono anche a condannare antenati anonimi che hanno sì lavorato duro, ma senza il gusto moderno per la deferenza nei confronti del politicamente corretto”. Così l’occidente nega il proprio eccezionalismo, accetta che siano attori antioccidentali a gestire i conflitti, e intanto si annoia tantissimo.