Addio all'opposizione ideologica d'antan. Arriva il "parti de la Nation"
Partito della nazione: una formula antipatica. In sé, ha il sapore del politicismo. Del trasformismo parlamentare. Dell’uomo solo al comando che manipola le forze in campo a vantaggio del suo dominio. Del tradimento, scorretto ovviamente, di un’idea standard di sinistra e di destra. Del “partito della nazione”, che è una chimera, si ragiona con diffidenza perché si pensa che non sia impasto pragmatico riformatore bensì logica delle convenienze opportuniste. I renzisti, la maggioranza di loro, dicono: teniamoci Matteo così com’è, così com’è nato, capo del Pd che sa vincere e sa parlare a un’area del paese, ma da posizioni almeno formalmente di sinistra, magari più larga di quella in cui si inscrive il perimetro dei democratici. Gli antirenzisti rottamati e non, di sinistra, dicono: il mito del “partito della nazione” dimostra che Matteo ha, come dice Alfredo Reichlin nella sua nuova funzione di patriarca, distrutto e svuotato la sinistra, per cui o si riesce a dissellarlo o lo si condiziona e lo si mette in condizione di far altro oppure di sinistra bisognerà farne un’altra, più pura e più intransigente nella difesa dei confini. E’ una configurazione legittima di diverse posizioni in campo, ed è legittimo che il principale interessato se ne disinteressi abbastanza, cercando di risolvere le cose facendo funzionare il governo che c’è (a maggioranza variabile ma tutto sommato funzionale) e la maggioranza di partito invariabile uscita dalle primarie e dal colpo di stato e di partito che mandò a casa Enrico Letta e la sua vasta lobby trasversale (un po’ un “partito della nazione” ma tanto perbenino).
In termini politici forse la questione non si pone nemmeno, data anche la legge elettorale e i ritmi del cambiamento all’italiana, Costituzione compresa, futuro referendum compreso. Spostiamoci allora sul piano politologico, che è il modo pseudoscientifico di rappresentare la politica senza la politica. E’ la politica dei professori e dei professorini. Perché farlo? Perché farlo noi, realisti indemoniati? Perché ragionare in modo meno ordinario dell’idea del trasversalismo, ché poi il partito della nazione è essenzialmente questo, può servire a capire che il discrimine destra-sinistra fa un po’ ridere, almeno oggi, almeno in Europa. E spostiamoci a Parigi, che è sempre una bella gita (evitando toni alla Science Po, la facoltà della politologia).
All’Eliseo c’è il contrario di Renzi, un Hollande pesante, continuista nonostante variazioni sul tema: il patto di responsabilità, la nomina di Manuel Valls al posto di Ayrault e del liberista Emmanuel Macron al posto del sovranista populista e forse veterosocialista Arnaud Montebourg (dato in imminente uscita dal Ps). All’Eliseo c’è un François Hollande di cui si denuncia l’impopolarità “stagnante” a un anno e mezzo dalle presidenziali, con un Front national rampante e una destra tutto sommato divisa tra il revival sarkozista e la potenziale candidatura del liberale moderato Alain Juppé. Ma a Matignon, sede del premier, c’è un giovane catalano, Valls, abbastanza leale al suo président ma che somiglia a Renzi, e un ministro economico, Macron, abbastanza leale al suo premier, ma che somiglia anche lui a Renzi.
Si tratta di parallelismi genetici alla lontana, ovviamente, niente di perfettamente assimilabile o sovrapponibile, sono due società e due storie politiche diverse quelle della sinistra italiana e della gauche.
Qual è il punto, allora? Il punto è che tra i socialisti francesi c’è una tendenza, che alcuni giudicano chimerica anch’essa, come il mito del “partito della nazione” tra virgolette, a superare il clivage destra-sinistra. Drappelli di parlamentari, un ministro ai rapporti con il Parlamento, e gli stessi Valls e Macron in concorrenza leale tra loro, per adesso, fanno delle gran Leopolde per arrivare al “partito della nazione”, che in Francia, trattandosi di un paese dove le idee vengono prima di tutto (almeno nell’esteriorità del potere e dei suoi giochi libertini), suona meno racchio che da noi. Lì poi agitare il tema di una cultura liberale ha qualcosa di felicemente scandaloso, posto che si riesca a uscire dall’isolamento ideologico (loro non hanno avuto un Berlusconi sdoganatore, poverini). I temi di contesto sono strettamente francesi: aprire a Juppé, formulare un piano B nel caso Hollande non riesca a presentarsi per un secondo mandato oppure nel caso in cui si profili la necessità di ricostruire la gauche su nuove basi dopo una sconfitta, verso il 2022. C’è una tradizione di trasversalismo in Francia, nonostante un maggioritario di ferro e di antica data, che levati. Più “trasformisti”, per dirla con i censori e i moralisti della storia italiana, di noi: questo sono i cugini. Con Mitterrand verso destra e poi con l’ouverture di Sarko a gauche gli elementi del campionario trasversale non mancano.
[**Video_box_2**]Ma le idee sono le stesse dappertutto: la demondializzazione non funziona, al mito dell’egualitarismo va sostituita la mobilità sociale, e il codice del lavoro o articolo 18 (sounds familiar?) va rivoltato come un calzino. Tutto questo lavorando di traverso con la destra, posto che ci sia una destra moderata e che la marea montante dei populismi e dei sovranismi lasci spazio a un’operazione di riformulazione della relazione tra idee di destra e pragmatismi di sinistra. Quando Chirac affrontò Le Pen padre al secondo turno, fu un epocale matraquage, una bastonatura in nome dei valori repubblicani e antifascisti. Ma ora è diverso: contro una Marine Le Pen che sta diventando in qualche senso la beniamina di un fronte nero-rosso contro l’Europa, per la sovranità nazionale eccetera, l’idea di un partito della nazione guidato dai riformatori dei due campi si fa non dico strada ma viottolo percorribile, forse e con mille cautele. Insomma: in Francia agiscono dei riformisti, anche generazionalmente connotati come “giovani” rispetto alla media, che credono possibile opporre al partito del sovranismo destra-sinistra, alleanza maligna e insidiosa come quella tra antipolitica grillina e establishment pigro all’italiana, un “parti de la Nation” che dell’opposizione ideologica d’antan non sa che farsene.
Comunque, non è, come direbbe Sergio Cofferati del riformismo trasversale, una parola o una formula malata. Se ne può discutere a Parigi, e lo si fa anche alla luce del renzismo, chissà che non se ne possa discutere anche in Italia. Chissà.
Giuliano Ferrara